Quale relazione tra cervello e intestino

di Federica De Nunzio, psicologa-psicoterapeuta

La relazione tra il cervello e l'intestino è nota come l'asse intestino-cervello o l'asse intestino-encefalico. Questa connessione è stata oggetto di molti studi scientifici negli ultimi anni e si è scoperto che il cervello e l'intestino sono strettamente collegati e comunicano costantemente tra di loro.

Il cervello e l'intestino sono collegati tramite il sistema nervoso autonomo, che è diviso in due componenti principali: il sistema nervoso simpatico e il sistema nervoso parasimpatico. Il sistema nervoso simpatico è coinvolto nella risposta di "lotta o fuga" del corpo. Esso è responsabile della mobilitazione delle risorse del corpo in risposta a situazioni di pericolo, stress o stimoli emozionali intensi. Quando il sistema simpatico viene attivato, si innescano una serie di risposte fisiologiche che preparano il corpo a reagire in modo rapido ed efficace.

Il sistema nervoso parasimpatico, invece, è coinvolto nella risposta di "riposo e digestione". Il suo ruolo principale è quello di promuovere il riposo, il rilassamento e il recupero del corpo, contrastando l'attivazione del sistema nervoso che prepara l'organismo simpatico per rispondere a situazioni di stress o pericolo.

Entrambi questi sistemi nervosi comunicano tra loro attraverso il nervo vago, che è la via principale di comunicazione tra il cervello e l'intestino.

Inoltre, il sistema enterico, che è il sistema nervoso del tratto gastrointestinale, è in grado di funzionare indipendentemente dal cervello. Questo sistema nervoso enterico contiene un numero impressionante di neuroni, superiore a quelli presenti nel midollo spinale, ed è in grado di regolare il funzionamento dell'intestino senza il coinvolgimento diretto del cervello. Tuttavia, il cervello può influenzare l'attività del sistema enterico e viceversa.

La comunicazione tra cervello e intestino avviene anche attraverso sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori. Ad esempio, il cervello produce serotonina, che è coinvolta nella regolazione dell'umore, e circa il 95% della serotonina nel corpo si trova nell'intestino. Altri neurotrasmettitori, come il GABA e il glutammato, sono coinvolti nella comunicazione tra cervello e intestino.

Questo collegamento tra cervello e intestino è importante per diversi aspetti della salute e del benessere. Perturbazioni dell'asse intestino-cervello sono state associate a disturbi gastrointestinali, come il colon irritabile, nonché a disturbi del tono dell'umore, come l'ansia e la depressione. Inoltre, si è scoperto che l'equilibrio della flora batterica nell'intestino, nota come microbiota intestinale, può influenzare la funzione cerebrale e il comportamento.

In sintesi, la relazione tra cervello e intestino è bidirezionale e complessa. Il cervello e l'intestino si influenzano a vicenda attraverso il sistema nervoso, i neurotrasmettitori e il microbiota intestinale, svolgendo un ruolo importante nella salute e nel benessere generale.

Gaslighting: analisi del fenomeno e suggerimenti per affrontarlo.

Giuseppe Massaro, PhD, Psicologo Psicoterapeuta – Terapeuta EMDR

Gaslighting è un termine usato per descrivere un comportamento abusante consistente in una forma di manipolazione psicologica in cui una persona (o un gruppo) cerca di seminare il dubbio in un individuo (o nei membri di un gruppo), inducendolo a mettere in discussione la propria memoria, percezione, intelligenza o sanità mentale.

Questo fenomeno è sempre stato presente nelle relazioni interpersonali, ma è diventato un tema di grande interesse negli ultimi anni, grazie all'aumento dell'attenzione sulla salute mentale e alla diffusione dei social media, che possono amplificare il fenomeno.

Va detto che questa manipolazione può essere posta in essere intenzionalmente o inconsciamente e da qualcuno che è vicino alla vittima, come un partner, un familiare, un amico, un collega o un superiore in contesti gerarchici. Il gaslighting può portare confusione, insicurezza e senso di isolamento nella vittima, ed è spesso usato come strumento di abuso e controllo.

In questo articolo cercheremo di capire meglio il fenomeno del Gaslighting, analizzandone le cause, le conseguenze e fornendo alcuni consigli utili per chi si trova in una situazione del genere.

Le origini del termine "Gaslighting"

Il termine "gaslighting" ha avuto origine dalla commedia e dal film Gaslight, scritti da Patrick Hamilton rispettivamente nel 1938 e nel 1940. La storia ruota attorno a un uomo che manipola sua moglie facendole credere che stia impazzendo, al fine di coprire le sue attività criminali. Il marito spegne gradualmente le lampade a gas nella loro casa, rendendo la luce tremula e fioca, e quando sua moglie fa notare i cambiamenti, egliafferma che lei sta immaginando le cose. Nasconde inoltre gli oggetti e sposta i mobili per farle pensare che stia impazzendo. Col passare del tempo, la moglie si convince che sta perdendo il contatto con la realtà e non riesce a fidarsi delle proprie percezioni.

Da allora il termine gaslighting è stato utilizzato per descrivere forme simili di manipolazione. Il gaslighting può implicare mentire apertamente o negare fatti, ma può anche essere più sottile, come mettere in dubbio la percezione o la memoria della vittima. L'obiettivo è far sì che la vittima metta in discussione il proprio giudizio e farla sentire come se stesse impazzendo.

Cause del Gaslighting

Le cause del Gaslighting sono complesse e spesso multifattoriali, ma in generale possono essere ricondotte a una serie di fattori che includono l'insicurezza, il controllo, l'ambizione, la dipendenza affettiva, la mancanza di rispetto e la disfunzione emotiva.

Una delle principali cause del Gaslighting è l'insicurezza. Spesso chi fa Gaslighting è una persona insicura, che ha paura di perdere il controllo sulla propria vita e sulle proprie relazioni. Questo può portare a un comportamento manipolativo, che mira a mantenere il controllo sul partner o sull'amico, anche a costo di danneggiare la relazione stessa.

Un'altra causa del Gaslighting è l'ambizione. Spesso le persone che fanno Gaslighting sono molto ambiziose e vogliono ottenere il massimo dalla vita. Questo può portarle a cercare di manipolare gli altri per ottenere ciò che desiderano, anche se questo comportamento può essere dannoso per le altre persone coinvolte.

La dipendenza affettiva è un altro fattore che può portare a comportamenti manipolativi come il Gaslighting. Le persone che fanno Gaslighting spesso hanno paura di perdere l'affetto delle persone a cui sono legate e cercano di mantenere il controllo sulle relazioni per evitare questo.

Infine, la disfunzione emotiva è un altro fattore che può portare al Gaslighting. Le persone che soffrono di disfunzioni emotive possono avere difficoltà a gestire le proprie emozioni e possono reagire in modo esagerato a situazioni di stress o di conflitto. Questo può portarle a cercare di manipolare gli altri per ottenere ciò che desiderano o per evitare conflitti.

Segni di gaslighting

Il gaslighting può assumere molte forme diverse, ma ci sono alcuni segni comuni a cui prestare attenzione. Questi includono:

1. Negare la percezione della realtà da parte della vittima: il gaslighter può negare che gli eventi siano accaduti nel modo in cui la vittima li ricorda, o può insistere sul fatto che la vittima stia interpretando male ciò che è accaduto.

2. Distorcere le parole della vittima: il gaslighter può distorcere le parole della vittima per farle sembrare che stiano dicendo qualcosa che non intendeva, o per far sembrare la vittima irrazionale o illogica.

3. Screditare le emozioni della vittima: il gaslighter può respingere i sentimenti della vittima o farla sentire in colpa per sentirsi in un certo modo.

4. Incolpare la vittima: il gaslighter può incolpare la vittima per problemi o errori che non dipendono lei, o può usare la vittima come capro espiatorio per i propri difetti.

5. Isolare la vittima: il gaslighter può isolare la vittima da amici o familiari, o può farla sentire come se non potesse fidarsi di nessun altro.

Effetti del gaslighting

Gli effetti del gaslighting possono essere devastanti. Le vittime di gaslighting possono provare una serie di emozioni, tra cui confusione, insicurezza e senso di isolamento. Il gaslighting può far sentire la vittima come se stesse perdendo il contatto con la realtà e può portare a una perdita di autostima e fiducia in se stessi. Ciò può naturalmente associarsi a depressione e/o ansia. Le vittime di gaslighting possono anche manifestare sintomi fisici, come mal di testa, ansia e insonnia. In alcuni casi, il gaslighting può portare alla depressione o addirittura al suicidio.

Il gaslighting può anche avere effetti a lungo termine sulle relazioni della vittima con gli altri. Le vittime possono avere difficoltà a fidarsi degli altri e possono avere difficoltà a costruire relazioni strette o mantenere confini sani. La persona che subisce il gaslighting può sentirsi sempre più isolata e sola, poiché ha difficoltà a confidarsi con gli altri e a farsi comprendere. Inoltre, il Gaslighting può portare a una mancanza di fiducia nella propria capacità di giudizio e di percezione, rendendo difficile distinguere ciò che è reale da ciò che è stato manipolato. La costante manipolazione può portare a una sensazione di inferiorità e di mancanza di autostima, rendendo difficile per la persona coinvolta affermare la propria identità e i propri bisogni.

Le vittime di gaslighting possono anche diventare eccessivamente dipendenti dal gaslighter o possono sviluppare paura del confronto o del disaccordo. Questo può portare a un ciclo di abusi e manipolazioni, in cui la vittima si sente intrappolata e incapace di sfuggire al controllo del gaslighter.

Guarire dal Gaslighting

Uscire dal gaslighting può essere un processo lungo e difficile, ma è possibile. Il primo passo è riconoscere che se ne è vittima. Questo può essere impegnativo, poiché i gaslighter spesso usano tattiche sottili per minare il senso di realtà delle loro vittime. Tuttavia, se si ha la sensazione di dubitare costantemente di se stessi o di mettere in discussione le proprie percezioni, potrebbe essere un segno che si è vittima di gaslighting.

Una volta riconosciuto ciò, è importante prendere provvedimenti per proteggersi. Ciò può comportare la definizione di confini con il gaslighter, come la limitazione del contatto o la ricerca di supporto da parte di altri. Può anche comportare la ricerca di un aiuto professionale, come una terapia o consulenza psicologica, per un aiuto nell’elaborare le esperienze e sviluppare strategie di coping.

Alcune strategie specifiche per uscire dal gaslighting includono:

1. Documentare le esperienze: tenere un diario o annotare le esperienze può aiutare a convalidare le percezioni e i ricordi e a identificare i modelli di comportamento del gaslighter.

2. Costruire una rete di supporto: circondarsi di persone che ci credono e supportano può essere fondamentali per uscire dal gaslighting. Ciò può comportare maggiore contatto con amici, familiari o frequentare gruppi di supporto.

3. Praticare la cura di sé: prendersi cura di sé fisicamente ed emotivamente può aiutare a ritrovare un senso di controllo e fiducia in se stessi. Ciò può comportare l'impegno in attività che piacevoli, come l'esercizio fisico o altri hobby, dormire a sufficienza, mangiare sano e praticare la consapevolezza o la meditazione.

4. Ricercare un aiuto professionale: un terapeuta o un consulente qualificato può aiutare a elaborare le esperienze, sviluppare strategie di coping e superare eventuali traumi o problemi emotivi legati al gaslighting.

In conclusione

Il gaslighting è una forma di manipolazione psicologica che può avere effetti devastanti sulle sue vittime. Può indurre le persone a mettere in discussione la propria realtà, minare la fiducia in se stessi e portare a sentimenti di isolamento e disperazione. Tuttavia, con il giusto supporto e adeguate strategie, è possibile riprendersi dal gaslighting e ritrovare un senso di controllo sulla propria vita. Riconoscendo i segni del gaslighting, stabilendo dei limiti e cercando un aiuto professionale, le vittime del gaslighting possono iniziare a guarire e andare avanti con le loro vite.

Musicoterapia in Neuroriabilitazione

di Sara Bernardi, musicoterapeuta

Molti aspetti della vita mentale coinvolgono la musica: musica, infatti, non è solo suonare uno strumento ma è anche cantare, saper leggere e decodificare le note, suonare in gruppo, comprendere la gestualità, ascoltare, ballare. Queste capacità fanno riferimento a processi mentali che, grazie agli studi dei neuroscienziati, sappiamo essere comuni ad altre funzioni come il linguaggio: suonare uno strumento necessita di capacità percettive legate all’ascolto, di capacità di movimento e coordinazione, di emozioni, creatività e memoria. Le nuove tecniche di neuroimaging hanno mostrato come questi processi avvengano in regioni specifiche del cervello: sappiamo che non esiste un centro cerebrale della musica, ma, essendo la musica uno stimolo complesso, l’informazione viene elaborata in diverse aree a partire dalla corteccia uditiva primaria cui arriva dall’orecchio attraverso le fibre uditive. Nella corteccia uditiva vengono selezionate le diverse componenti del suono e le relative informazioni vengono da qui trasmesse in altre regioni del cervello localizzate soprattutto nell’emisfero destro (nei non musicisti). Da qui si attivano contemporaneamente le regioni del linguaggio, la corteccia motoria e il cervelletto legati al movimento, l’ipotalamo e l’amigdala coinvolti nelle emozioni suscitate dall’ascolto e il centro della memoria, ossia l’ippocampo. 

Centro di Wernicke

L’elaborazione musicale condivide specifiche aree deputate ad altre funzioni. Ad esempio, il centro di Wernicke, specializzato nella parola, decodifica il segnale musicale in entrambi gli emisferi e lo trasmette senza mediazione al corpo e al sistema neurovegetativo che regola ritmo cardiaco, pressione arteriosa, richiamo sessuale e conduttanza cutanea ed endocrino che rilascia ormoni quali ACTH, ossitocina, vasopressina. Ancora, il piano temporale, situato nel lobo temporale è associato all’elaborazione del linguaggio ma anche alla classificazione dei suoni e alla definizione semantica e sintassi musicale. 

Considerando il grado di impegno cerebrale nell’ascolto e nella pratica musicale, si è iniziato ad osservare come l'esperienza musicale modifica l'organizzazione strutturale e funzionale del sistema nervoso dei musicisti, rendendoli progressivamente più addestrati ad analizzare il materiale sonoro e a produrlo (Schlaug et al, 1995) partendo dal concetto di plasticità cerebrale, ossia la capacità del sistema nervoso centrale di modificare la sua struttura anatomica attraverso la formazione sia di nuove cellule nervose, sia di filamenti sinaptici. L’addestramento musicale induce cambiamenti nel cervello come modificazioni nei sistemi motori coinvolti nel canto o nel suonare uno strumento, cambiamenti nelle aree del sistema uditivo deputate al riconoscimento degli elementi armonici, ritmici e strutturali della musica. Quindi, con il passare degli anni, il cervello del musicista si modifica a livello anatomico e strutturale dando vita alla formazione di nuove connessioni neurali tra la corteccia uditiva, visiva, motoria e somatosensoriale. Queste modificazioni plastiche sono tanto più marcate quanto prima iniziamo l’attività musicale: si è visto che la risposta corticale è maggiore nei musicisti che hanno iniziato a studiare prima dei 12 anni e che, a seconda dello strumento, il cervello si modifica in modo diverso. 

Partendo da questi presupposti è facile ipotizzare che la pratica musicale può costituire un valido supporto alle malattie neurodegenerative come la demenza, l’Alzheimer e i disturbi del movimento, ma anche a problematiche come le paresi e ai disturbi del linguaggio: uno studio su un paziente afasico, dimostra come dopo una terapia basata sul canto, il fascio arcuato di sinistra (responsabile della connessione tra l’area di Broca e l’area di Wernicke) danneggiato torni ad uno spessore pressoché normale. Questo perché la connettività nell’emisfero destro si sviluppa molto attraverso il canto. 

Area di Broca

Diversi studi dimostrano l’efficacia della musica e degli interventi musicali in ambito neurologico. Ad esempio, si è visto come interventi musicali strutturati che comprendono stimoli ritmici, canto e ascolto di musica selezionata dal paziente, possono contribuire a migliorare stabilità ed equilibrio, favorire una migliore coordinazione motoria stimolando la funzionalità delle performance fisiche e della respirazione, migliorare il ritmo sonno-veglia e ridurre il tremore e le discinesie nel Parkinson, costituendo un valido supporto alle terapie riabilitative. Questo grazie alla stimolazione del cervelletto e dei gangli della base, implicati nella sincronizzazione dei ritmi musicali così come nella sincronizzazione e coordinazione dei movimenti. Inoltre, fornisce un aiuto a favore dell’attenuazione del dolore provocato dalla cattiva postura e dalla sedentarietà: la musica, infatti, sembra aumentare la produzione da parte del cervello di endorfine che agiscono come analgesici e antidepressivi naturali dell’organismo. 

Ancora, la musica come strumento terapeutico apporta un valido contributo nell’ambito delle gravi cerebrolesioni acquisite a partire dalla valutazione interdisciplinare dello stato di coscienza dei pazienti a bassa responsività, tanto che in Inghilterra viene utilizzata per valutare se il paziente si trova in uno stato di non responsività o minima responsività: la musica, infatti, attivando contemporaneamente più aree del cervello, dimostra anche quali vie sono ancora attive. Si è visto che la musicoterapia sollecita attivamente, utilizzando l’unico canale disponibile in pazienti in coma che non vedono, non parlano e non possono comunicare con l’ambiente esterno, poiché le vie uditive sono quelle che restano funzionanti. Individuare un possibile canale di contatto può contribuire, in un’ottica di integrazione interdisciplinare, al recupero dello stato di coscienza grazie alle potenzialità evocative ed emozionali dell’elemento sonoro musicale.
Gli interventi musicali possono accompagnare tutte le fasi del recupero, dai disturbi di coscienza, a quelli cognitivi, motori e del comportamento, fino ad arrivare alle alterazioni dell’emotività e dell’umore. 

A proposito di emozioni sappiamo che l’ascolto di musica per noi piacevole consente l’attivazione del circuito dopaminergico deputato al supporto delle sensazioni di piacere, in particolare del nucleo accumbens che rappresenta il centro del piacere. Siamo arrivati a queste conoscenze solo nei primi anni Novanta, grazie all’avvento di moderni strumenti di ricerca in ambito delle neuroscienze cognitive come le tecniche di Neuroimaging, fra cui la Risonanza magnetica funzionale (fMRI), la Tomografia ad emissione di positroni (PET) e l'Elettroencefalogramma (EEG). Si è visto come la musica può agire su diverse funzioni e processi cerebrali, tanto che, intorno alla fine degli anni Novanta, ricercatori e clinici in musicoterapia e neurologia hanno iniziato a classificare le nuove evidenze relative all’utilizzo specifico della musica all’interno di un sistema di tecniche terapeutiche conosciute oggi come Neurologic Music Therapy (NMT), approfondite nel prossimo articolo. 

Cosa succede dopo un evento traumatico?

di Federica De Nunzio, psicologa psicoterapeuta, terapeuta EMDR

Il cervello di ognuno di noi possiede la capacità di elaborare le esperienze traumatiche e di collocare i ricordi in maniera costruttiva e adattiva all'interno delle proprie esperienze. Quando questo non avviene in modo naturale, si continua a soffrire per l'evento traumatico anche a distanza di moltissimo tempo dall'evento stesso e non si riesce a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente.

L'essere stato vittima di un evento traumatico porta a conseguenze che possono essere riscontrabili non solo a livello emotivo, ma lasciano il segno anche nel corpo di chi è sopravvissuto a uno di questi eventi. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che le persone che hanno vissuto traumi importanti nel corso della vita portano i segni anche a livello cerebrale, mostrando, ad esempio, un volume ridotto sia dell'ippocampo che dell'amigdala, aree deputate alla memoria, all'apprendimento e alle emozioni. Ciò che ha un impatto emotivo molto forte si ripercuote, quindi, anche a livello corporeo; risulta evidente che intervenire direttamente sull'elaborazione di questi eventi traumatici abbia un effetto anche sulla neurobiologia del nostro cervello.

Subito dopo aver vissuto un evento traumatico il nostro organismo e il nostro cervello vanno incontro ad una serie di reazioni di stress fisiologiche, che nel 70-80% dei casi tendono a risolversi naturalmente senza un intervento specialistico. Questo avviene perché l'innato meccanismo di elaborazione delle informazioni presente nel cervello di ognuno di noi è stato in grado di integrare le informazioni relative a quell'evento all'interno delle reti mnestiche del nostro cervello, rendendolo "digerito", ricollocato in modo costruttivo e adattivo all'interno della nostra capacità di narrare l'accaduto. Ma cosa succede quando questo non avviene?

Alcune persone continuano a soffrire per un evento traumatico anche a distanza di moltissimo tempo dall'evento stesso. Spesso riportano di provare le stesse sensazioni angosciose e di non riuscire per questo motivo a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente.

Questo quadro sintomatologico, che può arrivare fino al delinearsi di un Disturbo da Stress Post-Traumatico, è caratterizzato appunto dal "rivivere" continuamente l'evento traumatico, continuando a provare tutte le emozioni, sensazioni e pensieri negativi esperiti in quel momento. E' proprio quando ci si rende conto che le reazioni sono di questo tipo e che la sofferenza è significativa che è necessario chiedere aiuto ad uno specialista.

Nel corso degli ultimi anni, numerosi studi hanno dimostrato come gli eventi di vita avversi, soprattutto durante l'infanzia, possono portare allo stesso numero, o a un numero maggiore, di sintomi relativi al Disturbo post-traumatico da stress rispetto a quanto fanno gli eventi di grandi portata, causando disagi e difficoltà in numerosi ambiti della vita.

Da uno studio effettuato su più di 17.000 pazienti (Felitti el al., 1998) è emerso che maggiore era il numero di esperienze infantili avverse, maggiore era la probabilità di sviluppare problemi relativi alla salute mentale, come alcolismo, abuso di droghe, depressione, così come problemi di salute organici (per esempio disturbi al cuore, al fegato e ai polmoni, tumori e fratture ossee).

La ricerca ha continuato a fornire prove a sostegno degli effetti negativi delle esperienze infantili avverse, mostrando per esempio che, al di là dell’aver subito veri e propri abusi o dell’aver assistito a violenza domestica:

Le ricerche dimostrano come gli effetti di tali esperienze avverse infantili possano essere profondi e duraturi; la causa di tali effetti risiede nella mancata elaborazione dei ricordi relativi a tali eventi, che dunque restano immagazzinati insieme agli elementi cognitivi, emotivi e somatici così come sono stati esperiti originariamente dall’individuo.

Ma cosa si intende per esperienze infantili avverse?

Con tale terminologia si intende qualsiasi delle seguenti esperienze vissute all’interno del contesto famigliare prima dei 18 anni:

Le esperienze sfavorevoli infantili sono associate al 44% delle psicopatologie durante lo sviluppo e al 30% negli adulti e sono le cause più frequenti di disturbi psicologici a tutte le età (Archives of Psychiatry, 2010).

Le ripercussioni, come abbiamo visto non sono soltanto sul piano psicologico. I bambini che vivono esperienze traumatiche del genere, infatti, sono più soggetti allo sviluppo di patologie croniche come il diabete, la pressione alta, o anche a ictus e infarti (Proceedings of the National Academy of Sciences, 2013).

Ma purtroppo non è tutto. L’esposizione ad eventi stressanti in età precoce rende il cervello meno resistente agli effetti degli eventi stressanti successivi, nel corso della vita. Questo fenomeno ha delle precise basi fisiologiche. Un bambino ha meno risorse di un adulto per fare fronte alle esperienze stressanti. Pertanto queste, specialmente se legate al contesto familiare o dei pari, non sono gestibili da parte del bambino e diventano croniche. Se lo stress è cronico, esso produce livelli tossici di neurotrasmettitori che uccidono le cellule del cervello, in modo particolare nell’ippocampo, area deputata all’apprendimento, alla memoria e alle emozioni. Nel cervello dei giovani adulti maltrattati o trascurati durante l’infanzia è possibile osservare cambiamenti strutturali specifici in regioni chiave sia interne sia vicine all’ippocampo. Alti livelli di ormone dello stress associati a diversi tipi di maltrattamento possono danneggiare quindi l’ippocampo che, a sua volta, può influenzare l’abilità delle persone di affrontare gli eventi stressanti nel corso della vita. Essendo danneggiate le sedi cerebrali deputate alla memoria e all’apprendimento, risulterà ancor più difficile apprendere a gestire le situazioni stressanti (presenti e future) e le emozioni ad esse connesse. Questi cambiamenti possono rendere i soggetti molto più vulnerabili all’insorgenza di depressione, ansia, PTSD e dipendenze.

L’abuso influisce anche sul sistema neuroendocrino, alterando la produzione dell’ormone regolatore dello stress cortisolo e neurotrasmettitori come adrenalina, dopamina, serotonina, che influiscono sull’umore e sul comportamento. Questi effetti riducono a lungo andare anche la funzionalità del sistema immunitario determinando gli affetti sulla salute fisica sopra menzionati.

La buona notizia è che un attento e serio lavoro sulla propria storia di esperienze infantili avverse, per mezzo della psicoterapia può avere effetti significativi nella “guarigione” dalle conseguenze negative di tale storia personale.

Purtroppo, per alcuni, l’esposizione a certe forme di maltrattamento o trascuratezza in infanzia è stata talmente continua e frequente, che tali esperienze vengono semplicemente reputate il modo “normale” di vivere l’infanzia: tali persone non sono pienamente consapevoli delle ferite subite. Gli effetti però si rendono spesso evidenti attraverso tutta una serie di sintomi e disagi psico-fisici sperimentati in diversi ambiti della vita (dai problemi relazionali, a quelli lavorativi, alle dipendenze relazionali e da sostanze, a problemi di ansia e di umore, alla difficoltà di gestire le emozioni, oltre a certe problematiche fisiche come quelle citate). Pertanto, quando si riscontrano difficoltà del genere, sarebbe opportuno rivolgersi a un professionista per valutare la presenza di esperienze traumatiche nel proprio passato. Fortunatamente oggi tecniche psicoterapeutiche avanzate, come l’EMDR, permettono di rielaborare in modo funzionale le esperienze negative del presente e del passato e superarne gli effetti sulla salute psicofisica.

I disturbi del sonno: insonnia

Il sonno sembrerebbe essere un comportamento essenziale alla sopravvivenza, e il fatto che tutti i vertebrati dormono, compreso quelli per cui sarebbe meglio non dormire (come il delfino Indus), suggerisce che il sonno sia più di una semplice risposta adattiva. 
Iniziamo un viaggio attraverso i principali disturbi di questa funzione così importante.

di Federica De Nunzio, Psicologa e Psicoterapeuta

La maggior parte dei ricercatori ritiene che la funzione principale del sonno sia quella di permettere al cervello di riposare. Nell’uomo gli effetti di diversi giorni di deprivazione di sonno includono distorsioni percettive o persino allucinazioni e difficoltà nell’eseguire compiti che richiedono una concentrazione prolungata. Questi effetti suggeriscono che la deprivazione di sonno influisce negativamente sul funzionamento cerebrale. Il sonno profondo ad onde lente (stadio 3 e 4 del sonno) sembra essere lo stadio più importante, e probabilmente la sua funzione consiste nel permettere al cervello di recuperare. Il sonno REM (caratterizzato da movimenti oculari rapidi, che si verificano mentre si sogna), invece, sembra promuovere lo sviluppo cerebrale e l’apprendimento.

Gli stadi del sonno sono organizzati secondo cicli di 90 minuti di sonno REM e NonREM

Va detto che la nostra vita è caratterizzata da cicli di attività fisica, sonno, temperatura corporea, secrezione ormonale e altre modificazioni fisiologiche. Questi cicli sono chiamati ritmi circadiani  e sono controllati dagli orologi biologici, orologi interni regolati da stimoli esterni (Zeitgeber, dal tedesco "che dà il tempo"). La luce ad esempio, rilevata da speciali cellule retiniche non coinvolte nella percezione visiva, funziona da Zeitgeber per la maggioranza dei ritmi circadiani; di conseguenza, alterazioni del ritmo sonno-veglia alterano i ritmi biologici.

I disturbi del sonno rappresentano un problema spesso misconosciuto, sottodiagnosticato e non adeguatamente trattato, nonostante si stimi che nel nostro Paese siano circa 12 milioni le persone che soffrono di insonnia cronica o transitoria (circa 1 adulto su 4, secondo i dati dell’Associazione Italiana per la Medicina del sonno). Oltre all'insonnia essi annoverano anche ipersonnia, parasonnie, apnee, disturbi temporanei o persistenti sonno-veglia, disturbi legati al movimento, sintomi isolati. In questo primo articolo sull'argomento ci occuperemo di uno dei disturbi più diffusi, l'insonnia.

In base alla durata, l’insonnia è classificata in forme acute, a medio termine e croniche, che sono ricondotte cause diverse: in genere, mentre l’insonnia cronica è più frequentemente correlata alla presenza di comorbidità di tipo psichiatrico e medico, quella acuta è tipicamente determinata da condizioni di stress, patologie acute o farmaci.

L’insonnia è definita come percezione soggettiva di difficoltà nella fase di addormentamento e/o di mantenimento del sonno, nonché di scarsa qualità di riposo; da sintomo diventa una vera e propria patologia quando si associa a significativo stress e riduzione della funzionalità in importanti aree, quali quella sociale e lavorativa.

I disturbi del sonno hanno maggiore incidenza nelle donne rispetto agli uomini, rappresentando un problema diffuso ed estremamente rilevante, in particolare, nel periodo del climaterio e della menopausa.

I ritmi frenetici della vita quotidiana, familiare e lavorativa, portano a una riduzione del numero di ore dedicate al sonno e gli alti livelli di stress e ansia, interferendo con la qualità del riposo notturno, ne minano le potenzialità ristoratrici. Le donne, in ragione del proprio assetto ormonale, scandito da bioritmi che si modificano nel corso delle diverse fasi della vita, sono fisiologicamente esposte al rischio di sviluppare disturbi del sonno. Poiché dal sonno sono regolati i più importanti ritmi biologici cardiovascolari, neuroendocrini e riproduttivi, un’alterazione in termini quantitativi e qualitativi di tale funzione, reiterata nel tempo, produce pesanti ripercussioni sull’equilibrio psico-fisico della persona, compromettendone l’efficienza funzionale globale, inficiandone la qualità di vita e lo stato di salute – generale, psicoemotiva, riproduttiva – sino a predisporre all’insorgenza di patologie organiche e psichiche, nonché di disturbi della fertilità.

Numerosi studi hanno dimostrato che l’insonnia rappresenta un importante fattore di rischio per molti disordini psichici, essendo in grado, in assenza di altri sintomi, di aumentare il rischio di sviluppare disturbi ansiosi, sindrome depressiva e comportamenti dipendenti da alcol e droga.

Tuttavia, l’insonnia deve essere definita in relazione alla particolare necessità di sonno individuale. Alcuni brevi dormitori ricercano assistenza medica perché ritengono che dovrebbero dormire di più, sebbene si sentano bene. Queste persone dovrebbero essere rassicurate del fatto che qualsiasi durata del sonno sembri sufficiente è sufficiente.

Ironicamente, una delle cause più importanti di insonnia sembra rappresentata dai farmaci ipnotici. L’insonnia non è una malattia che può essere curata con una medicina, nel modo in cui l’insulina cura il diabete. L’insonnia è un sintomo. Se è causato da dolore o disagio, allora bisogna garantire il sollievo fisico necessario a permettere il sonno. Se è secondario a problemi personali o disturbi psicologici, si devono trattare direttamente queste problematiche. I pazienti che assumono farmaci ipnotici sviluppano tolleranza e soffrono di sintomi di rebound (effetto rimbalzo) alla sospensione del farmaco: ciò significa che il farmaco perde progressivamente di efficacia e il paziente richiede dosi sempre più elevate. Se il soggetto cerca di dormire senza assumere il farmaco a cui è abituato o ne riduce il dosaggio, probabilmente sviluppa una reazione di astinenza, cioè, un grave disturbo del sonno. Il paziente si convince che l’insonnia è perfino peggiore di prima e assume una quantità maggiore di farmaco per combatterla. Questa sindrome comune è denominata insonnia da farmacodipendenza.

Alcuni consigli per una corretta igiene del sonno:

  1. Andare a letto solo quando si sente il bisogno di dormire;
  2. Spegnere subito la luce ed evitare di leggere e guardare la TV stando a letto;
  3. Non dormire durante la giornata;
  4. La sera mangiare leggero evitando fumo, alcol e attività fisica intensa;
  5. Non svolgere attività coinvolgenti almeno un'ora prima di coricarsi;
  6. Se non si riesce a prendere sonno, fare esercizi di rilassamento.

La "PSICOLOGIA DEL SECONDO CERVELLO", "Second Brain Psychology"

La psicologia del secondo cervello parte dal dialogo "logico", per agire nel profondo, nell’intestino (secondo cervello) sede della struttura psico-emotiva dell'individuo e della memoria  emotiva. È efficace perché permette di rielaborare i nodi psicologici o vissuti "non digeriti" dalla persona in una chiave psicologica specifica.

di Silvia Russo, Psicologa e Professoressa di filosofia e storia

La definizione coniata dal neurobiologo della Columbia University Michael D. Gershon di “secondo cervello”, individua nell’intestino la parte dell’organismo atta ad importanti funzioni che favoriscono il benessere fisico insieme al benessere psicologico della persona.

Numerose le prove scientifiche anche del CNR di una profonda connessione tra il cervello e l’intestino, sede di un vero e proprio sistema nervoso autonomo, poiché contiene oltre cento milioni di fibre neuronali sulla parete dell'addome. Dall’intestino parte la contrazione intestinale: è il "sentire di pancia" e anche “il pugno nello stomaco”, luoghi simbolo e sede nei visceri delle emozioni. Emozioni che mandano segnali al cervello e creano una memoria emotiva psicologica.

Altro indicatore interessante è che nelle cellule enterocromaffini della parete gastrointestinale viene sintetizzato il 95% di serotonina, responsabile del buon umore, battezzata l’“ormone della felicità”.

Il continuo collegamento tra il cervello e lo stomaco, l’esofago, l'intestino e il colon avviene attraverso il nervo vago, che parte dal midollo allungato e si porta, attraverso il foro giugulare, verso il basso nel torace e nell'addome.

Il metodo psicologico è organizzato tenendo conto della struttura psicologica individuale della persona e dei processi psico-emotivi del Secondo Cervello.

Ognuno di noi ha una struttura psico-emotiva di nascita su cui si sviluppa la propria personalità: unica ed irripetibile e per questo importante da accogliere ed analizzare.

Il percorso SBP si attua ragionando sui nodi psicologici o vissuti "non digeriti" dalla persona che, con un dialogo con lo psicologo, partendo da domande mirate per esaminare nel profondo il paziente, permette di rielaborare determinati vissuti in una chiave specifica, in modo da renderli digeribili al livello della mente del Secondo Cervello. 

Il percorso terapeutico con la Second Brain Psychology agisce in modo profondo anche sui problemi di dipendenza da sostanze, in quanto modifica l'esigenza e l'effetto fisiologico delle sostanze utilizzate tramite lo scioglimento dei vissuti che hanno causato la dipendenza stessa, andando a riequilibrare lo stato psico-fisiologico.

 Il dialogo intrapsichico è efficace perché partendo dal dialogo “logico”, agisce a livello emotivo.

TESTIMONIANZA

“Questo percorso mi ha aiutata moltissimo a riacquistare fiducia in me stessa, aumentando la mia autostima, andando di conseguenza a ridurre ansia, timore verso gli altri e sensi di colpa. Ho ottenuto molti benefici dai quali ne traggo vantaggio tuttora”.

Gli aspetti psicologici della fibromialgia

Quasi sconosciuta fino a pochi anni fa, la fibromialgia è stata oggetto di numerosi studi che hanno apportato nuove conoscenze, anche da un punto di vista epidemiologico. Per esempio, oggi sappiamo che la fibromialgia è maggiormente diffusa tra le donne (che rappresentano circa il 90% dei malati) e che può comparire a qualsiasi età, ma il picco si colloca tra i 40 e i 60 anni, con importanti ripercussioni sull’attività lavorativa e sul piano socio-affettivo. Si stima che in Italia ne soffrano quasi quattro milioni di persone: numeri che fanno della fibromialgia la seconda malattia reumatica, in termini di diffusione, dopo l’osteoartrosi (o artrosi).

Che cosa è la fibromialgia?

Il termine "fibromialgia" significa dolore (algos) proveniente dai muscoli (myo) e dai tessuti fibrosi (fibro), come tendini e legamenti. La fibromialgia è, quindi, una malattia reumatica che colpisce l'apparato muscolo-scheletrico, caratterizzato dalla presenza di: dolore cronico e diffuso, aumento della tensione muscolare e rigidità in numerose sedi dell'apparato locomotore.

Oltre allo stato di iperalgesia, molti pazienti presentano una serie di altri sintomi, che include: astenia (affaticamento cronico e stanchezza debilitante); disturbi dell'umore e del sonno (difficoltà ad addormentarsi o risvegli notturni per la tensione muscolare, che portano a sentirsi affaticati la mattina dopo); sindrome del colon irritabile.

La fibromialgia può essere definita "sindrome fibromialgica", in quanto particolari segni clinici possono presentarsi contemporaneamente. La coesistenza di questo insieme di disturbi concorre a determinare la diagnosi più probabile, anche se non tutti i pazienti avvertono l'intero insieme di sintomi associati alla fibromialgia.

Altre condizioni cliniche spesso presenti nel paziente affetto da fibromialgia sono mal di testa, difficoltà cognitive (soprattutto di memoria e concentrazione) e formicolii. Non solo: il 30-40 per cento dei pazienti con fibromialgia soffre di un concomitante disturbo psicologico significativo come ansia, panico, depressione, disturbo post-traumatico da stress, che può determinare un peggioramento dei sintomi della malattia.

Cos'è e quali sono le cause?

Le cause all’origine di tale malattia risultano ancora oggi in parte sconosciute. Seppure vi sono stati progressi significativi negli ultimi anni, infatti, la fibromialgia risulta ancora oggi una patologia difficile da diagnosticare e ancor più da curare in modo efficace e completo.

Nel caso della fibromialgia si pensa che la genesi sia multifattoriale (genetica, ambientale, emotiva) e che alla base della malattia vi sia un processo di "sensibilizzazione centrale". Secondo questa ipotesi, l'abbassamento della soglia del dolore, una delle caratteristiche principali della malattia oltre all'iperalgesia, è dovuta ad una aumentata reattivitá delle cellule cerebrali e spinali deputate alla percezione del dolore. Mediante questo processo di sensibilizzazione anche uno stimolo di lieve entità viene avvertito come un dolore.

Oltre alla componente genetica, i fattori che predispongono alla malattia sono riferibili ad infiammazioni, infezioni, traumi fisici, disturbi del sonno. Questi ultimi se da un lato sono un sintomo stesso della malattia, dall'altro aumentano il senso di stanchezza cronica. La fibromialgia può avere nella vita di tutti i giorni un forte impatto emotivo con sentimenti di preoccupazione, tristezza profonda, isolamento, rabbia e disperazione, oltre a compromettere in maniera significativa lo svolgimento delle attività quotidiane.

Perché è così difficile da diagnosticare?

I sintomi della fibromialgia sono diversi e c’è una frequente sovrapposizione con i sintomi di altre patologie. Gli esami di laboratorio o radiologici esistenti non sembrano aiutare nella diagnosi, risultando in grande parte aspecifici o non dirimenti. Anche per questo, nel corso del tempo la comunità scientifica si è interrogata sull’effettiva esistenza della fibromialgia e sulla sua classificazione. Solo nel 1992 la fibromialgia è stata riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come entità diagnostica autonoma. La diagnosi viene effettuata di solito da un medico esperto nella fibromialgia (solitamente un reumatologo, immunologo, ortopedico o psichiatra) attraverso un’attenta anamnesi (esistono questionari specificatamente sviluppati) e un esame obiettivo scrupoloso, che include la pressione dei cosiddetti tender points, punti specifici del corpo che, se premuti, provocano dolore in chi è affetto da fibromialgia.

Ancora oggi, pregiudizi e disinformazione da parte dei medici possono impedire l’accesso rapido alla corretta visita specialistica e, di conseguenza, alla diagnosi e a trattamenti tempestivi e mirati. Di solito infatti, prima di ricevere la diagnosi corretta, una persona con fibromialgia consulta numerosi specialisti, molti dei quali esprimono pareri diversi o contrastanti, anche magari prescrivendo terapie inefficaci. Tutto ciò ha un effetto deleterio sul paziente, perché contribuisce a generare confusione, rabbia, solitudine e depressione, che a loro volta favoriscono l’instaurarsi di una condizione di stress cronico, che contribuisce a peggiorare i sintomi algici e la percezione del dolore stesso.

Che ruolo giocano i fattori psicologici?

Gli aspetti emotivi nella fibromialgia assumono una rilevanza notevole non solo dal punto di vista degli stati psicologici ma soprattutto per la sovrapposizione di questi con gli stessi meccanismi biologici della malattia.

In alcuni individui vulnerabili geneticamente, infatti, condizioni di stress o sofferenza emotiva protratta a lungo e condizioni di dolore cronico si intrecciano e si influenzano reciprocamente generando un'alterata risposta dell'organismo a stimoli minacciosi, stressogeni o dolorosi.

Un esempio di come le emozioni si manifestino direttamente nel corpo è dato dallo stress. Ricerche dimostrano che le persone con fibromialgia hanno una tendenza maggiore rispetto agli altri di vivere in modo amplificato situazioni di stress psico-fisico, facendo fronte ad esse con un'iperattivazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, principale effettore della risposta individuale di stress. Ciò porterebbe a un'alterata produzione di cortisolo (comunemente chiamato "ormone dello stress") che a sua volta determina un aumento nel rilascio di citochine pro- infiammatorie. Queste ultime entrano in gioco sia nel potenziare i meccanismi depressogeni, sia quelli relativi alla percezione del dolore.

Allo stesso modo alcuni neurotrasmettitori, come la serotonina, agiscono non solo a livello cerebrale modulando ansia e depressione ma intervengono anche nel funzionamento di regolazione dei sistemi discendenti del dolore. L'emozione quindi genera dolore (e viceversa) in maniera diretta, immediata e il processo di sensibilizzazione centrale in alcune porzioni neuronali può essere alla base di entrambi gli aspetti della sindrome fibromialgica, quello somatico e quello emotivo.

Cosa fare?

È importante affidarsi a uno specialista che fornisca una diagnosi. Il reumatologo è il medico più adatto a capire se si tratta realmente di fibromialgia e che può dare le informazioni utili per le cure disponibili.

Il trattamento della fibromialgia prevede sia l'assunzione di farmaci, sia cambiamenti dello stile di vita, ed è sempre mirato alla riduzione dei sintomi e al miglioramento dello stato di salute generale. Purtroppo non esiste una cura definitiva e attualmente si consiglia l'approccio multifattoriale per ottenere i migliori risultati.

La psicoterapia si pone non come alternativa alle cure mediche ma come sostegno delle stesse. Al fine di non rendere vani i risultati raggiunti dal trattamento medico è spesso necessario individuare e risolvere le difficoltà emotive vissute dalla persona che spesso si manifestano attraverso il corpo.

La psicoterapia deve essere mirata a gestire gli stati ansiosi, a ridurre i fattori di stress e a raggiungere una maggiore consapevolezza di quali sono gli aspetti emotivi che possono mantenere o aggravare le condizioni della malattia.

Lo psicologo, in questi casi, collabora con il medico curante agendo parallelamente alle terapie mediche e fornendo anche un supporto emotivo nei momenti di difficoltà e scoraggiamento. Inoltre può fornire un parere e intervenire sull’eventuale presenza di disturbi psicologici che possono influire sulla percezione del dolore o sulla tendenza a sviluppare sintomi fisici in relazione a difficoltà emotive.

Come le esperienze infantili negative impattano la nostra esistenza

Non si tratta soltanto dei casi di abuso fisico, psicologico e sessuale, che riempiono tristemente le cronache. Sono numerose le esperienze infantili negative (a partire da quelle in famiglia) che possono avere risvolti in età adulta

di Federica De Nunzio, Psicologa Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR
e Giuseppe Massaro, Psicologo Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR

“Penso che quest’uomo stia soffrendo a causa dei suoi ricordi”  Sigmund Freud, 1895

La parola trauma deriva dal greco e vuol dire ferita. In questa prospettiva, possiamo quindi pensare al trauma non soltanto in riferimento a situazioni estreme, ma anche in riferimento a qualsiasi evento che abbia un effetto negativo perturbante sul sé o sulla psiche di un individuo.

Quindi, ad esempio, anche se un’umiliazione subìta alle scuole medie potrebbe non essere considerata come “trauma” per la diagnosi di Disturbo post traumatico da stress (PTSD), a livello emotivo tale evento può essere considerato l’equivalente evoluzionistico di venir tagliato fuori dal gruppo di appartenenza, e come tale può essere devastante e lasciare effetti traumatici duraturi.

Nel corso degli ultimi anni, numerosi studi hanno dimostrato come gli eventi di vita avversi, soprattutto in infanzia, possono portare allo stesso numero, o a un numero maggiore, di sintomi relativi al Disturbo post-traumatico da stress rispetto a quanto fanno gli eventi traumatici di grande portata, causando disagi e difficoltà in numerosi ambiti della vita.

Da uno studio effettuato su più di 17.000 pazienti (Felitti el al., 1998) è emerso che maggiore era il numero di esperienze infantili avverse, maggiore era la probabilità di sviluppare problemi relativi alla salute mentale, come alcolismo, abuso di droghe, depressione, così come problemi di salute organici (per esempio disturbi al cuore, al fegato e ai polmoni, tumori e fratture ossee).

La ricerca ha continuato a fornire prove a sostegno degli effetti negativi delle esperienze infantili avverse, mostrando per esempio che, al di là dell’aver subito veri e propri abusi o dell’aver assistito a violenza domestica:

Le ricerche dimostrano come gli effetti di tali esperienze avverse infantili possano essere profondi e duraturi; la causa di tali effetti risiede nella mancata elaborazione dei ricordi relativi a tali eventi, che dunque restano immagazzinati insieme agli elementi cognitivi, emotivi e somatici così come sono stati esperiti originariamente dall’individuo.

Ma cosa si intende per esperienze infantili avverse?

Con tale terminologia si intende qualsiasi delle seguenti esperienze vissute all’interno del contesto famigliare prima dei 18 anni:

Le esperienze sfavorevoli infantili sono associate al 44% delle psicopatologie durante lo sviluppo e al 30% negli adulti e sono le cause più frequenti di disturbi psicologici a tutte le età (Archives of Psychiatry, 2010).

Le ripercussioni, come abbiamo visto non sono soltanto sul piano psicologico. I bambini che vivono esperienze traumatiche del genere, infatti, sono più soggetti allo sviluppo di patologie croniche come il diabete, la pressione alta, o anche a ictus e infarti (Proceedings of the National Academy of Sciences, 2013).

Ma purtroppo non è tutto. L’esposizione ad eventi stressanti in età precoce rende il cervello meno resistente agli effetti degli eventi stressanti successivi, nel corso della vita. Questo fenomeno ha delle precise basi fisiologiche. Un bambino ha meno risorse di un adulto per fare fronte alle esperienze stressanti. Pertanto queste, specialmente se legate al contesto familiare o dei pari, non sono gestibili da parte del bambino e diventano croniche. Se lo stress è cronico, esso produce livelli tossici di neurotrasmettitori che uccidono le cellule del cervello, in modo particolare nell’ippocampo, area deputata all’apprendimento, alla memoria e alle emozioni. Nel cervello dei giovani adulti maltrattati o trascurati durante l’infanzia è possibile osservare cambiamenti strutturali specifici in regioni chiave sia interne sia vicine all’ippocampo. Alti livelli di ormone dello stress associati a diversi tipi di maltrattamento possono danneggiare quindi l’ippocampo che, a sua volta, può influenzare l’abilità delle persone di affrontare gli eventi stressanti nel corso della vita. Essendo danneggiate le sedi cerebrali deputate alla memoria e all’apprendimento, risulterà ancor più difficile apprendere a gestire le situazioni stressanti (presenti e future) e le emozioni ad esse connesse. Questi cambiamenti possono rendere i soggetti molto più vulnerabili all’insorgenza di depressione, ansia, PTSD e dipendenze.

L’abuso influisce anche sul sistema neuroendocrino, alterando la produzione dell’ormone regolatore dello stress cortisolo e neurotrasmettitori come adrenalina, dopamina, serotonina, che influiscono sull’umore e sul comportamento. Questi effetti riducono a lungo andare anche la funzionalità del sistema immunitario determinando gli affetti sulla salute fisica sopra menzionati.

La buona notizia è che un attento e serio lavoro sulla propria storia di esperienze infantili avverse, per mezzo della psicoterapia può avere effetti significativi nella “guarigione” dalle conseguenze negative di tale storia personale.

Purtroppo, per alcuni, l’esposizione a certe forme di maltrattamento o trascuratezza in infanzia è stata talmente continua e frequente, che tali esperienze vengono semplicemente reputate il modo “normale” di vivere l’infanzia: tali persone non sono pienamente consapevoli delle ferite subite. Gli effetti però si rendono spesso evidenti attraverso tutta una serie di sintomi e disagi psico-fisici sperimentati in diversi ambiti della vita (dai problemi relazionali, a quelli lavorativi, alle dipendenze relazionali e da sostanze, a problemi di ansia e di umore, alla difficoltà di gestire le emozioni, oltre a certe problematiche fisiche come quelle citate). Pertanto, quando si riscontrano difficoltà del genere, sarebbe opportuno rivolgersi a un professionista per valutare la presenza di esperienze traumatiche nel proprio passato. Fortunatamente oggi tecniche psicoterapeutiche avanzate, come l’EMDR (vedi articolo), permettono di rielaborare in modo funzionale le esperienze negative del presente e del passato e superarne gli effetti sulla salute psicofisica.

Riconoscere la violenza ostetrica

di Federica De Nunzio, psicologa-psicoterapeuta, terapeuta EMDR.

Definita per la prima volta in ambito giuridico nel 2007 nella “Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia” del Venezuela come “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano”, la violenza ostetrica è entrata progressivamente nell’agenda politica internazionale.

E mentre si inquadra il problema a livello mondiale e si cercano forme di tutela sempre maggiori, in Italia non esiste ancora una legislazione in materia e neanche una raccolta dati ufficiale. Durante la Sessione Autunnale 2019 il Consiglio d’Europa ha adottato la Risoluzione 2306/2019 chiedendo agli Stati membri di assicurarsi che l’assistenza alla nascita venga fornita nel rispetto dei diritti e della dignità umana e qualificando la violenza ostetrica nel quadro normativo della Convenzione di Istanbul – di cui anche l’Italia è firmataria. Ma è con il Rapporto annuale presentato lo scorso ottobre all’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite da Dubravka Šimonović, relatrice speciale sulla violenza contro le donne del Consiglio per i diritti umani, che la violenza ostetrica è stata riconosciuta come violazione dei diritti umani e vera e propria violenza di genere.

Cosa è la violenza ostetrica?

La violenza ostetrica si riferisce all’abuso che avviene nell’ambito generale delle cure ostetrico-ginecologiche ad opera di tutti gli operatori sanitari che prestano assistenza alla donna e al neonato (ginecologo, ostetrica o altre figure professionali di supporto).

L’OMS spiega che un numero crescente di studi sulle esperienze delle donne durante la gravidanza, e in particolare durante il parto, dà un quadro allarmante. Si parla di abuso fisico diretto, abuso verbale, procedure mediche coercitive o non acconsentite (inclusa la sterilizzazione), mancanza di riservatezza, carenza di un consenso realmente informato, rifiuto di offrire un’adeguata terapia per il dolore, gravi violazioni della privacy, rifiuto di ricezione nelle strutture ospedaliere, trascuratezza nell’assistenza al parto con complicazioni altrimenti evitabili che mettono in pericolo la vita della donna, detenzione delle donne e dei loro bambini nelle strutture dopo la nascita connessa all’impossibilità di pagare. Inoltre, adolescenti, donne non sposate, donne in condizioni sociali o economiche sfavorevoli, donne appartenenti a minoranze etniche, o donne migranti e donne affette da HIV sono particolarmente esposte al rischio di subire trattamenti irrispettosi e abusi.

Questi trattamenti non solo violano «il diritto delle donne ad un’assistenza sanitaria rispettosa», ma possono anche «minacciare il loro diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica e alla libertà da ogni forma di discriminazione».

Disturbo post-traumatico da stress (PTSD) Postnatale, di cosa si tratta?

Esperienze di questo tipo arrivano a configurare un vero e proprio disturbo post-traumatico da stress (PTSD) Postnatale, il quale si presenta attraverso pensieri intrusivi, incubi e flashback, disturbi del sonno, di concentrazione e memoria, ipervigilanza, irritabilità ed evitamento di tutto quanto correlato all’evento traumatico. Tale sintomatologia può insorgere da pochi giorni a diversi mesi dopo il parto, ed è stata inizialmente associata solo all’esperienza del parto. Il PTSD Postnatale è un disturbo associato a fattori di vulnerabilità individuali e a esperienze di rischio post-traumatico, incluse: gravidanze a rischio, travagli prolungati, complicazioni durante il parto, gravi condizioni di salute dei bambini alla nascita, perdite perinatali.

Il PTSD Postnatale compromette in maniera rilevante la qualità degli scambi affettivi madre-bambino; l’individuazione precoce dei fattori di vulnerabilità individuale e dei sintomi post-traumatici potrebbe contenere la sofferenza psichica delle donne, sostenere la qualità della relazione madre-bambino nonché tutelare il benessere di tutta la famiglia.

Cosa è stato fatto in Italia?

In Italia nel 1972 alcuni collettivi femministi di Ferrara promossero la campagna “Basta tacere” a cui parteciparono decine di donne che raccontarono le loro storie di abusi e maltrattamenti durante il parto o la gravidanza. Alcuni di quei racconti finirono in un opuscolo che venne stampato e ristampato a mano dalle promotrici in migliaia di copie. Nell’aprile del 2016 quella campagna è stata rilanciata per iniziativa di alcune attiviste e con il sostegno di decine di associazioni. La campagna, su Facebook, è stata chiamata come quella degli anni Settanta: “Basta tacere” e in pochi giorni ha raccolto spontaneamente le testimonianze di migliaia di donne che hanno raccontato e descritto le loro esperienze di abusi e maltrattamenti. Da questa recente campagna è nato infine l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica (OVOItalia) con la finalità di raccogliere dati e storie e di rendere visibile un fenomeno poco conosciuto e riconosciuto dalle donne stesse. Su commissione dell’Osservatorio è stata condotta l’indagine nazionale Doxa “Le donne e il parto” che ha permesso di ottenere dei dati significativi.

I dati dell’Osservatorio, l’episiotomia…

L’indagine per l’Osservatorio è stata condotta su un campione rappresentativo di circa 5 milioni di donne italiane di età compresa tra i 18 e i 54 anni con almeno un figlio di meno di 14 anni. I dati dicono che per 4 donne su 10 (41 per cento) l’assistenza al parto è stata lesiva della loro dignità e integrità psicofisica.

In particolare la prima esperienza negativa vissuta durante la fase del parto è risultata la pratica dell’episiotomia, subita da oltre la metà (54 per cento) delle donne intervistate. L’episiotomia è un’incisione chirurgica del perineo, l’area compresa tra la vagina e l’ano, praticata durante il parto per allargare l’apertura vaginale quando la testa del bambino comincia ad affacciarsi verso l’esterno. L’OMS la definisce una pratica «dannosa, tranne in rari casi». In Italia 3 partorienti su 10 negli ultimi 14 anni (cioè 1,6 milioni di donne e il 61 per cento di quelle che hanno subito un’episiotomia) hanno dichiarato di non aver dato il loro consenso informato per autorizzare l’intervento. Il rischio di un’episiotomia sono dolori post partum, la difficoltà che può durare anche settimane prima di riuscire a sedersi e a camminare normalmente e, infine, problemi e dolore nei rapporti sessuali dopo il parto.

La pratica delle episiotomie in Europa è molto varia da paese a paese: 70 per cento in Polonia, Portogallo e Cipro, 40-50 per cento in Belgio e Spagna, tra il 16 per cento e il 36 per cento in Francia, Germania e Svizzera, 13 per cento nel Regno Unito, 5-7 per cento in Danimarca, Svezia e Islanda. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia l’episiotomia viene praticata nel 60 per cento dei parti naturali, con medie che al sud arrivano anche al 70 per cento. Molto lontane da paese a paese sono poi le cifre che hanno a che fare con il ricorso ai cesarei. Secondo i dati del ministero della Salute, nel 2015 in Italia il 34,1 per cento dei bambini è nato con parto cesareo, mentre tra i paesi europei il tasso medio è inferiore al 25 per cento. Come dimostrano le percentuali registrate negli altri paesi europei, quella dell’incisione e del cesareo sono dunque in alcuni casi delle necessità, ma altre volte delle scelte.

Cos’è Optibith?

Nel 2016 è stata presentata la ricerca Optibirth condotta in otto paesi dell’Europa, compresa l’Italia, da un gruppo di operatori, in gran parte ostetriche e poi ginecologi, epidemiologi e statistici con l’obiettivo di contrastare l’inarrestabile aumento dei tagli cesarei, anche attraverso l’aumento di parti naturali dopo il cesareo (VBAC). Il presupposto era di realizzare un modello basato sulla centralità della donna, sull’autonomia delle sue scelte in quanto un cesareo non necessario o una cattiva informazione sulle proprie possibilità di scelta rientrano nel concetto di violenza ostetrica. Così come non è un obbligo per la donna assumere durante il travaglio la posizione standard invece di quella che preferisce, in modo da assecondare il più possibile la fisiologia del parto. Aldilà del grande sforzo innovativo e delle notevoli resistenze che dovunque ha incontrato, lo studio Optibirth ha segnato una svolta nella promozione della normalità della nascita.

Link utili

Quotidiano sanità 27/01/2017: Fermare l'epidemia dei cesarei

Organizzazione Mondiale della Sanità sulla violenza ostetrica

https://ovoitalia.wordpress.com/

L'importanza del sonno per la nostra salute

di Elettra Agovino, Biologa Nutrizionista

Dormire. Sembra una cosa naturale, una fase di transizione che scandisce il passaggio tra “oggi” e “domani”. E se non fosse solo questo?

Per definizione: “Il sonno è un processo fisiologico comune alla maggior parte delle specie animali, caratterizzato da un’attività motoria ridotta o assente e da uno stato di marcata dissociazione rispetto agli stimoli sensoriali provenienti dall’ambiente”.

Dormire fa bene, questo è noto a tutti, ma anche i benefici del sonno hanno regole precise.

Prima regola importantissima è la durata del sonno.
Per favorire un riposo salutare e avere un risveglio senza stanchezza, è importante dormire almeno 7-8 ore a notte, cercando di rispettare orari regolari (tra le 22:00 e le 6:00).

La seconda riguarda l’alimentazione.
Per garantirsi una notte serena è importante non appesantirsi eccessivamente e non consumare bevande eccitanti o stimolanti, ad esempio bevande a base di caffeina e teina.
Contrariamente a quanto si pensa, consumare carboidrati complessi, come ad esempio pasta o patate, favorisce la fase di addormentamento, mentre sostanze o cibi molto ricchi di zuccheri semplici, come i dolci,  tendono a dare più energia “istantanea” generando sovreccitamento e difficoltà a prendere sonno.

La terza è legata all’ambiente in cui si riposa.
La nostra camera da letto deve ispirarci calma e fiducia. Per tale scopo si può ricorrere a oggetti familiari o modificare la posizione del letto. Importante è chiudere le finestre qualora queste affaccino su zone rumorose e limitare le entrate di luce da queste.
Tuttavia, vista la situazione attuale, in molti casi la nostra stanza diventa anche sede di ufficio, con lo smart working, o di aula, in caso di bambini e docenti in DAD, il che porta a non identificarla più come un luogo della nostra privacy, bensì ad una fonte di stress.

Ultima, ma non per importanza, riguarda le fonti elettroniche.
È importante non avere fonti elettriche (computer, tablet, cellulari ecc.) sul comodino e non trascorrere gran parte della giornata esposti alle luci bianche di questi dispositivi.
Questo, purtroppo, nella società attuale è un fattore difficile da evitare poiché pc, tablet e dispositivi analoghi sono ormai parte integrante di molti lavori. Ancor di più con l’insorgenza, a causa della pandemia che ci ha colpiti, di smart working e DAD. Queste due situazioni influenzano negativamente il sonno per due aspetti. In primo luogo, aumentano notevolmente le situazioni di stress, ma anche perché, come detto, implica un numero di ore molto elevato di esposizione ai dispositivi elettronici. 
Altrettanto importante è spegnere questi dispositivi almeno 30-40 minuti prima di metterci a letto, in modo da “spegnere” la mente e non avere collegamenti esterni che possono farci attivare pensieri negativi.

Ma perché rispettare queste regole? Quali sono i reali benefici del sonno?

Gran parte delle funzioni del nostro corpo, tra cui produzione di ormoni, mantenimento della temperatura corporea, del ritmo cardiaco e del metabolismo, hanno un’attività regolata da ritmi circadiani, che sono influenzati dall’alternanza sonno/veglia. La variazione di questi ritmi altera alcuni geni che vanno a loro volta ad influenzare il rilascio di ormoni che possono indurre disturbi del sonno.

Dormire bene, nelle giuste condizioni e per il tempo giusto, quindi, porta innumerevoli benefici per la salute tra cui: