Gaslighting: analisi del fenomeno e suggerimenti per affrontarlo.

Giuseppe Massaro, PhD, Psicologo Psicoterapeuta – Terapeuta EMDR

Gaslighting è un termine usato per descrivere un comportamento abusante consistente in una forma di manipolazione psicologica in cui una persona (o un gruppo) cerca di seminare il dubbio in un individuo (o nei membri di un gruppo), inducendolo a mettere in discussione la propria memoria, percezione, intelligenza o sanità mentale.

Questo fenomeno è sempre stato presente nelle relazioni interpersonali, ma è diventato un tema di grande interesse negli ultimi anni, grazie all'aumento dell'attenzione sulla salute mentale e alla diffusione dei social media, che possono amplificare il fenomeno.

Va detto che questa manipolazione può essere posta in essere intenzionalmente o inconsciamente e da qualcuno che è vicino alla vittima, come un partner, un familiare, un amico, un collega o un superiore in contesti gerarchici. Il gaslighting può portare confusione, insicurezza e senso di isolamento nella vittima, ed è spesso usato come strumento di abuso e controllo.

In questo articolo cercheremo di capire meglio il fenomeno del Gaslighting, analizzandone le cause, le conseguenze e fornendo alcuni consigli utili per chi si trova in una situazione del genere.

Le origini del termine "Gaslighting"

Il termine "gaslighting" ha avuto origine dalla commedia e dal film Gaslight, scritti da Patrick Hamilton rispettivamente nel 1938 e nel 1940. La storia ruota attorno a un uomo che manipola sua moglie facendole credere che stia impazzendo, al fine di coprire le sue attività criminali. Il marito spegne gradualmente le lampade a gas nella loro casa, rendendo la luce tremula e fioca, e quando sua moglie fa notare i cambiamenti, egliafferma che lei sta immaginando le cose. Nasconde inoltre gli oggetti e sposta i mobili per farle pensare che stia impazzendo. Col passare del tempo, la moglie si convince che sta perdendo il contatto con la realtà e non riesce a fidarsi delle proprie percezioni.

Da allora il termine gaslighting è stato utilizzato per descrivere forme simili di manipolazione. Il gaslighting può implicare mentire apertamente o negare fatti, ma può anche essere più sottile, come mettere in dubbio la percezione o la memoria della vittima. L'obiettivo è far sì che la vittima metta in discussione il proprio giudizio e farla sentire come se stesse impazzendo.

Cause del Gaslighting

Le cause del Gaslighting sono complesse e spesso multifattoriali, ma in generale possono essere ricondotte a una serie di fattori che includono l'insicurezza, il controllo, l'ambizione, la dipendenza affettiva, la mancanza di rispetto e la disfunzione emotiva.

Una delle principali cause del Gaslighting è l'insicurezza. Spesso chi fa Gaslighting è una persona insicura, che ha paura di perdere il controllo sulla propria vita e sulle proprie relazioni. Questo può portare a un comportamento manipolativo, che mira a mantenere il controllo sul partner o sull'amico, anche a costo di danneggiare la relazione stessa.

Un'altra causa del Gaslighting è l'ambizione. Spesso le persone che fanno Gaslighting sono molto ambiziose e vogliono ottenere il massimo dalla vita. Questo può portarle a cercare di manipolare gli altri per ottenere ciò che desiderano, anche se questo comportamento può essere dannoso per le altre persone coinvolte.

La dipendenza affettiva è un altro fattore che può portare a comportamenti manipolativi come il Gaslighting. Le persone che fanno Gaslighting spesso hanno paura di perdere l'affetto delle persone a cui sono legate e cercano di mantenere il controllo sulle relazioni per evitare questo.

Infine, la disfunzione emotiva è un altro fattore che può portare al Gaslighting. Le persone che soffrono di disfunzioni emotive possono avere difficoltà a gestire le proprie emozioni e possono reagire in modo esagerato a situazioni di stress o di conflitto. Questo può portarle a cercare di manipolare gli altri per ottenere ciò che desiderano o per evitare conflitti.

Segni di gaslighting

Il gaslighting può assumere molte forme diverse, ma ci sono alcuni segni comuni a cui prestare attenzione. Questi includono:

1. Negare la percezione della realtà da parte della vittima: il gaslighter può negare che gli eventi siano accaduti nel modo in cui la vittima li ricorda, o può insistere sul fatto che la vittima stia interpretando male ciò che è accaduto.

2. Distorcere le parole della vittima: il gaslighter può distorcere le parole della vittima per farle sembrare che stiano dicendo qualcosa che non intendeva, o per far sembrare la vittima irrazionale o illogica.

3. Screditare le emozioni della vittima: il gaslighter può respingere i sentimenti della vittima o farla sentire in colpa per sentirsi in un certo modo.

4. Incolpare la vittima: il gaslighter può incolpare la vittima per problemi o errori che non dipendono lei, o può usare la vittima come capro espiatorio per i propri difetti.

5. Isolare la vittima: il gaslighter può isolare la vittima da amici o familiari, o può farla sentire come se non potesse fidarsi di nessun altro.

Effetti del gaslighting

Gli effetti del gaslighting possono essere devastanti. Le vittime di gaslighting possono provare una serie di emozioni, tra cui confusione, insicurezza e senso di isolamento. Il gaslighting può far sentire la vittima come se stesse perdendo il contatto con la realtà e può portare a una perdita di autostima e fiducia in se stessi. Ciò può naturalmente associarsi a depressione e/o ansia. Le vittime di gaslighting possono anche manifestare sintomi fisici, come mal di testa, ansia e insonnia. In alcuni casi, il gaslighting può portare alla depressione o addirittura al suicidio.

Il gaslighting può anche avere effetti a lungo termine sulle relazioni della vittima con gli altri. Le vittime possono avere difficoltà a fidarsi degli altri e possono avere difficoltà a costruire relazioni strette o mantenere confini sani. La persona che subisce il gaslighting può sentirsi sempre più isolata e sola, poiché ha difficoltà a confidarsi con gli altri e a farsi comprendere. Inoltre, il Gaslighting può portare a una mancanza di fiducia nella propria capacità di giudizio e di percezione, rendendo difficile distinguere ciò che è reale da ciò che è stato manipolato. La costante manipolazione può portare a una sensazione di inferiorità e di mancanza di autostima, rendendo difficile per la persona coinvolta affermare la propria identità e i propri bisogni.

Le vittime di gaslighting possono anche diventare eccessivamente dipendenti dal gaslighter o possono sviluppare paura del confronto o del disaccordo. Questo può portare a un ciclo di abusi e manipolazioni, in cui la vittima si sente intrappolata e incapace di sfuggire al controllo del gaslighter.

Guarire dal Gaslighting

Uscire dal gaslighting può essere un processo lungo e difficile, ma è possibile. Il primo passo è riconoscere che se ne è vittima. Questo può essere impegnativo, poiché i gaslighter spesso usano tattiche sottili per minare il senso di realtà delle loro vittime. Tuttavia, se si ha la sensazione di dubitare costantemente di se stessi o di mettere in discussione le proprie percezioni, potrebbe essere un segno che si è vittima di gaslighting.

Una volta riconosciuto ciò, è importante prendere provvedimenti per proteggersi. Ciò può comportare la definizione di confini con il gaslighter, come la limitazione del contatto o la ricerca di supporto da parte di altri. Può anche comportare la ricerca di un aiuto professionale, come una terapia o consulenza psicologica, per un aiuto nell’elaborare le esperienze e sviluppare strategie di coping.

Alcune strategie specifiche per uscire dal gaslighting includono:

1. Documentare le esperienze: tenere un diario o annotare le esperienze può aiutare a convalidare le percezioni e i ricordi e a identificare i modelli di comportamento del gaslighter.

2. Costruire una rete di supporto: circondarsi di persone che ci credono e supportano può essere fondamentali per uscire dal gaslighting. Ciò può comportare maggiore contatto con amici, familiari o frequentare gruppi di supporto.

3. Praticare la cura di sé: prendersi cura di sé fisicamente ed emotivamente può aiutare a ritrovare un senso di controllo e fiducia in se stessi. Ciò può comportare l'impegno in attività che piacevoli, come l'esercizio fisico o altri hobby, dormire a sufficienza, mangiare sano e praticare la consapevolezza o la meditazione.

4. Ricercare un aiuto professionale: un terapeuta o un consulente qualificato può aiutare a elaborare le esperienze, sviluppare strategie di coping e superare eventuali traumi o problemi emotivi legati al gaslighting.

In conclusione

Il gaslighting è una forma di manipolazione psicologica che può avere effetti devastanti sulle sue vittime. Può indurre le persone a mettere in discussione la propria realtà, minare la fiducia in se stessi e portare a sentimenti di isolamento e disperazione. Tuttavia, con il giusto supporto e adeguate strategie, è possibile riprendersi dal gaslighting e ritrovare un senso di controllo sulla propria vita. Riconoscendo i segni del gaslighting, stabilendo dei limiti e cercando un aiuto professionale, le vittime del gaslighting possono iniziare a guarire e andare avanti con le loro vite.

Cosa succede dopo un evento traumatico?

di Federica De Nunzio, psicologa psicoterapeuta, terapeuta EMDR

Il cervello di ognuno di noi possiede la capacità di elaborare le esperienze traumatiche e di collocare i ricordi in maniera costruttiva e adattiva all'interno delle proprie esperienze. Quando questo non avviene in modo naturale, si continua a soffrire per l'evento traumatico anche a distanza di moltissimo tempo dall'evento stesso e non si riesce a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente.

L'essere stato vittima di un evento traumatico porta a conseguenze che possono essere riscontrabili non solo a livello emotivo, ma lasciano il segno anche nel corpo di chi è sopravvissuto a uno di questi eventi. Le ricerche scientifiche hanno dimostrato che le persone che hanno vissuto traumi importanti nel corso della vita portano i segni anche a livello cerebrale, mostrando, ad esempio, un volume ridotto sia dell'ippocampo che dell'amigdala, aree deputate alla memoria, all'apprendimento e alle emozioni. Ciò che ha un impatto emotivo molto forte si ripercuote, quindi, anche a livello corporeo; risulta evidente che intervenire direttamente sull'elaborazione di questi eventi traumatici abbia un effetto anche sulla neurobiologia del nostro cervello.

Subito dopo aver vissuto un evento traumatico il nostro organismo e il nostro cervello vanno incontro ad una serie di reazioni di stress fisiologiche, che nel 70-80% dei casi tendono a risolversi naturalmente senza un intervento specialistico. Questo avviene perché l'innato meccanismo di elaborazione delle informazioni presente nel cervello di ognuno di noi è stato in grado di integrare le informazioni relative a quell'evento all'interno delle reti mnestiche del nostro cervello, rendendolo "digerito", ricollocato in modo costruttivo e adattivo all'interno della nostra capacità di narrare l'accaduto. Ma cosa succede quando questo non avviene?

Alcune persone continuano a soffrire per un evento traumatico anche a distanza di moltissimo tempo dall'evento stesso. Spesso riportano di provare le stesse sensazioni angosciose e di non riuscire per questo motivo a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente.

Questo quadro sintomatologico, che può arrivare fino al delinearsi di un Disturbo da Stress Post-Traumatico, è caratterizzato appunto dal "rivivere" continuamente l'evento traumatico, continuando a provare tutte le emozioni, sensazioni e pensieri negativi esperiti in quel momento. E' proprio quando ci si rende conto che le reazioni sono di questo tipo e che la sofferenza è significativa che è necessario chiedere aiuto ad uno specialista.

Nel corso degli ultimi anni, numerosi studi hanno dimostrato come gli eventi di vita avversi, soprattutto durante l'infanzia, possono portare allo stesso numero, o a un numero maggiore, di sintomi relativi al Disturbo post-traumatico da stress rispetto a quanto fanno gli eventi di grandi portata, causando disagi e difficoltà in numerosi ambiti della vita.

Da uno studio effettuato su più di 17.000 pazienti (Felitti el al., 1998) è emerso che maggiore era il numero di esperienze infantili avverse, maggiore era la probabilità di sviluppare problemi relativi alla salute mentale, come alcolismo, abuso di droghe, depressione, così come problemi di salute organici (per esempio disturbi al cuore, al fegato e ai polmoni, tumori e fratture ossee).

La ricerca ha continuato a fornire prove a sostegno degli effetti negativi delle esperienze infantili avverse, mostrando per esempio che, al di là dell’aver subito veri e propri abusi o dell’aver assistito a violenza domestica:

Le ricerche dimostrano come gli effetti di tali esperienze avverse infantili possano essere profondi e duraturi; la causa di tali effetti risiede nella mancata elaborazione dei ricordi relativi a tali eventi, che dunque restano immagazzinati insieme agli elementi cognitivi, emotivi e somatici così come sono stati esperiti originariamente dall’individuo.

Ma cosa si intende per esperienze infantili avverse?

Con tale terminologia si intende qualsiasi delle seguenti esperienze vissute all’interno del contesto famigliare prima dei 18 anni:

Le esperienze sfavorevoli infantili sono associate al 44% delle psicopatologie durante lo sviluppo e al 30% negli adulti e sono le cause più frequenti di disturbi psicologici a tutte le età (Archives of Psychiatry, 2010).

Le ripercussioni, come abbiamo visto non sono soltanto sul piano psicologico. I bambini che vivono esperienze traumatiche del genere, infatti, sono più soggetti allo sviluppo di patologie croniche come il diabete, la pressione alta, o anche a ictus e infarti (Proceedings of the National Academy of Sciences, 2013).

Ma purtroppo non è tutto. L’esposizione ad eventi stressanti in età precoce rende il cervello meno resistente agli effetti degli eventi stressanti successivi, nel corso della vita. Questo fenomeno ha delle precise basi fisiologiche. Un bambino ha meno risorse di un adulto per fare fronte alle esperienze stressanti. Pertanto queste, specialmente se legate al contesto familiare o dei pari, non sono gestibili da parte del bambino e diventano croniche. Se lo stress è cronico, esso produce livelli tossici di neurotrasmettitori che uccidono le cellule del cervello, in modo particolare nell’ippocampo, area deputata all’apprendimento, alla memoria e alle emozioni. Nel cervello dei giovani adulti maltrattati o trascurati durante l’infanzia è possibile osservare cambiamenti strutturali specifici in regioni chiave sia interne sia vicine all’ippocampo. Alti livelli di ormone dello stress associati a diversi tipi di maltrattamento possono danneggiare quindi l’ippocampo che, a sua volta, può influenzare l’abilità delle persone di affrontare gli eventi stressanti nel corso della vita. Essendo danneggiate le sedi cerebrali deputate alla memoria e all’apprendimento, risulterà ancor più difficile apprendere a gestire le situazioni stressanti (presenti e future) e le emozioni ad esse connesse. Questi cambiamenti possono rendere i soggetti molto più vulnerabili all’insorgenza di depressione, ansia, PTSD e dipendenze.

L’abuso influisce anche sul sistema neuroendocrino, alterando la produzione dell’ormone regolatore dello stress cortisolo e neurotrasmettitori come adrenalina, dopamina, serotonina, che influiscono sull’umore e sul comportamento. Questi effetti riducono a lungo andare anche la funzionalità del sistema immunitario determinando gli affetti sulla salute fisica sopra menzionati.

La buona notizia è che un attento e serio lavoro sulla propria storia di esperienze infantili avverse, per mezzo della psicoterapia può avere effetti significativi nella “guarigione” dalle conseguenze negative di tale storia personale.

Purtroppo, per alcuni, l’esposizione a certe forme di maltrattamento o trascuratezza in infanzia è stata talmente continua e frequente, che tali esperienze vengono semplicemente reputate il modo “normale” di vivere l’infanzia: tali persone non sono pienamente consapevoli delle ferite subite. Gli effetti però si rendono spesso evidenti attraverso tutta una serie di sintomi e disagi psico-fisici sperimentati in diversi ambiti della vita (dai problemi relazionali, a quelli lavorativi, alle dipendenze relazionali e da sostanze, a problemi di ansia e di umore, alla difficoltà di gestire le emozioni, oltre a certe problematiche fisiche come quelle citate). Pertanto, quando si riscontrano difficoltà del genere, sarebbe opportuno rivolgersi a un professionista per valutare la presenza di esperienze traumatiche nel proprio passato. Fortunatamente oggi tecniche psicoterapeutiche avanzate, come l’EMDR, permettono di rielaborare in modo funzionale le esperienze negative del presente e del passato e superarne gli effetti sulla salute psicofisica.

I disturbi del sonno: insonnia

Il sonno sembrerebbe essere un comportamento essenziale alla sopravvivenza, e il fatto che tutti i vertebrati dormono, compreso quelli per cui sarebbe meglio non dormire (come il delfino Indus), suggerisce che il sonno sia più di una semplice risposta adattiva. 
Iniziamo un viaggio attraverso i principali disturbi di questa funzione così importante.

di Federica De Nunzio, Psicologa e Psicoterapeuta

La maggior parte dei ricercatori ritiene che la funzione principale del sonno sia quella di permettere al cervello di riposare. Nell’uomo gli effetti di diversi giorni di deprivazione di sonno includono distorsioni percettive o persino allucinazioni e difficoltà nell’eseguire compiti che richiedono una concentrazione prolungata. Questi effetti suggeriscono che la deprivazione di sonno influisce negativamente sul funzionamento cerebrale. Il sonno profondo ad onde lente (stadio 3 e 4 del sonno) sembra essere lo stadio più importante, e probabilmente la sua funzione consiste nel permettere al cervello di recuperare. Il sonno REM (caratterizzato da movimenti oculari rapidi, che si verificano mentre si sogna), invece, sembra promuovere lo sviluppo cerebrale e l’apprendimento.

Gli stadi del sonno sono organizzati secondo cicli di 90 minuti di sonno REM e NonREM

Va detto che la nostra vita è caratterizzata da cicli di attività fisica, sonno, temperatura corporea, secrezione ormonale e altre modificazioni fisiologiche. Questi cicli sono chiamati ritmi circadiani  e sono controllati dagli orologi biologici, orologi interni regolati da stimoli esterni (Zeitgeber, dal tedesco "che dà il tempo"). La luce ad esempio, rilevata da speciali cellule retiniche non coinvolte nella percezione visiva, funziona da Zeitgeber per la maggioranza dei ritmi circadiani; di conseguenza, alterazioni del ritmo sonno-veglia alterano i ritmi biologici.

I disturbi del sonno rappresentano un problema spesso misconosciuto, sottodiagnosticato e non adeguatamente trattato, nonostante si stimi che nel nostro Paese siano circa 12 milioni le persone che soffrono di insonnia cronica o transitoria (circa 1 adulto su 4, secondo i dati dell’Associazione Italiana per la Medicina del sonno). Oltre all'insonnia essi annoverano anche ipersonnia, parasonnie, apnee, disturbi temporanei o persistenti sonno-veglia, disturbi legati al movimento, sintomi isolati. In questo primo articolo sull'argomento ci occuperemo di uno dei disturbi più diffusi, l'insonnia.

In base alla durata, l’insonnia è classificata in forme acute, a medio termine e croniche, che sono ricondotte cause diverse: in genere, mentre l’insonnia cronica è più frequentemente correlata alla presenza di comorbidità di tipo psichiatrico e medico, quella acuta è tipicamente determinata da condizioni di stress, patologie acute o farmaci.

L’insonnia è definita come percezione soggettiva di difficoltà nella fase di addormentamento e/o di mantenimento del sonno, nonché di scarsa qualità di riposo; da sintomo diventa una vera e propria patologia quando si associa a significativo stress e riduzione della funzionalità in importanti aree, quali quella sociale e lavorativa.

I disturbi del sonno hanno maggiore incidenza nelle donne rispetto agli uomini, rappresentando un problema diffuso ed estremamente rilevante, in particolare, nel periodo del climaterio e della menopausa.

I ritmi frenetici della vita quotidiana, familiare e lavorativa, portano a una riduzione del numero di ore dedicate al sonno e gli alti livelli di stress e ansia, interferendo con la qualità del riposo notturno, ne minano le potenzialità ristoratrici. Le donne, in ragione del proprio assetto ormonale, scandito da bioritmi che si modificano nel corso delle diverse fasi della vita, sono fisiologicamente esposte al rischio di sviluppare disturbi del sonno. Poiché dal sonno sono regolati i più importanti ritmi biologici cardiovascolari, neuroendocrini e riproduttivi, un’alterazione in termini quantitativi e qualitativi di tale funzione, reiterata nel tempo, produce pesanti ripercussioni sull’equilibrio psico-fisico della persona, compromettendone l’efficienza funzionale globale, inficiandone la qualità di vita e lo stato di salute – generale, psicoemotiva, riproduttiva – sino a predisporre all’insorgenza di patologie organiche e psichiche, nonché di disturbi della fertilità.

Numerosi studi hanno dimostrato che l’insonnia rappresenta un importante fattore di rischio per molti disordini psichici, essendo in grado, in assenza di altri sintomi, di aumentare il rischio di sviluppare disturbi ansiosi, sindrome depressiva e comportamenti dipendenti da alcol e droga.

Tuttavia, l’insonnia deve essere definita in relazione alla particolare necessità di sonno individuale. Alcuni brevi dormitori ricercano assistenza medica perché ritengono che dovrebbero dormire di più, sebbene si sentano bene. Queste persone dovrebbero essere rassicurate del fatto che qualsiasi durata del sonno sembri sufficiente è sufficiente.

Ironicamente, una delle cause più importanti di insonnia sembra rappresentata dai farmaci ipnotici. L’insonnia non è una malattia che può essere curata con una medicina, nel modo in cui l’insulina cura il diabete. L’insonnia è un sintomo. Se è causato da dolore o disagio, allora bisogna garantire il sollievo fisico necessario a permettere il sonno. Se è secondario a problemi personali o disturbi psicologici, si devono trattare direttamente queste problematiche. I pazienti che assumono farmaci ipnotici sviluppano tolleranza e soffrono di sintomi di rebound (effetto rimbalzo) alla sospensione del farmaco: ciò significa che il farmaco perde progressivamente di efficacia e il paziente richiede dosi sempre più elevate. Se il soggetto cerca di dormire senza assumere il farmaco a cui è abituato o ne riduce il dosaggio, probabilmente sviluppa una reazione di astinenza, cioè, un grave disturbo del sonno. Il paziente si convince che l’insonnia è perfino peggiore di prima e assume una quantità maggiore di farmaco per combatterla. Questa sindrome comune è denominata insonnia da farmacodipendenza.

Alcuni consigli per una corretta igiene del sonno:

  1. Andare a letto solo quando si sente il bisogno di dormire;
  2. Spegnere subito la luce ed evitare di leggere e guardare la TV stando a letto;
  3. Non dormire durante la giornata;
  4. La sera mangiare leggero evitando fumo, alcol e attività fisica intensa;
  5. Non svolgere attività coinvolgenti almeno un'ora prima di coricarsi;
  6. Se non si riesce a prendere sonno, fare esercizi di rilassamento.

La "PSICOLOGIA DEL SECONDO CERVELLO", "Second Brain Psychology"

La psicologia del secondo cervello parte dal dialogo "logico", per agire nel profondo, nell’intestino (secondo cervello) sede della struttura psico-emotiva dell'individuo e della memoria  emotiva. È efficace perché permette di rielaborare i nodi psicologici o vissuti "non digeriti" dalla persona in una chiave psicologica specifica.

di Silvia Russo, Psicologa e Professoressa di filosofia e storia

La definizione coniata dal neurobiologo della Columbia University Michael D. Gershon di “secondo cervello”, individua nell’intestino la parte dell’organismo atta ad importanti funzioni che favoriscono il benessere fisico insieme al benessere psicologico della persona.

Numerose le prove scientifiche anche del CNR di una profonda connessione tra il cervello e l’intestino, sede di un vero e proprio sistema nervoso autonomo, poiché contiene oltre cento milioni di fibre neuronali sulla parete dell'addome. Dall’intestino parte la contrazione intestinale: è il "sentire di pancia" e anche “il pugno nello stomaco”, luoghi simbolo e sede nei visceri delle emozioni. Emozioni che mandano segnali al cervello e creano una memoria emotiva psicologica.

Altro indicatore interessante è che nelle cellule enterocromaffini della parete gastrointestinale viene sintetizzato il 95% di serotonina, responsabile del buon umore, battezzata l’“ormone della felicità”.

Il continuo collegamento tra il cervello e lo stomaco, l’esofago, l'intestino e il colon avviene attraverso il nervo vago, che parte dal midollo allungato e si porta, attraverso il foro giugulare, verso il basso nel torace e nell'addome.

Il metodo psicologico è organizzato tenendo conto della struttura psicologica individuale della persona e dei processi psico-emotivi del Secondo Cervello.

Ognuno di noi ha una struttura psico-emotiva di nascita su cui si sviluppa la propria personalità: unica ed irripetibile e per questo importante da accogliere ed analizzare.

Il percorso SBP si attua ragionando sui nodi psicologici o vissuti "non digeriti" dalla persona che, con un dialogo con lo psicologo, partendo da domande mirate per esaminare nel profondo il paziente, permette di rielaborare determinati vissuti in una chiave specifica, in modo da renderli digeribili al livello della mente del Secondo Cervello. 

Il percorso terapeutico con la Second Brain Psychology agisce in modo profondo anche sui problemi di dipendenza da sostanze, in quanto modifica l'esigenza e l'effetto fisiologico delle sostanze utilizzate tramite lo scioglimento dei vissuti che hanno causato la dipendenza stessa, andando a riequilibrare lo stato psico-fisiologico.

 Il dialogo intrapsichico è efficace perché partendo dal dialogo “logico”, agisce a livello emotivo.

TESTIMONIANZA

“Questo percorso mi ha aiutata moltissimo a riacquistare fiducia in me stessa, aumentando la mia autostima, andando di conseguenza a ridurre ansia, timore verso gli altri e sensi di colpa. Ho ottenuto molti benefici dai quali ne traggo vantaggio tuttora”.

Gli aspetti psicologici della fibromialgia

Quasi sconosciuta fino a pochi anni fa, la fibromialgia è stata oggetto di numerosi studi che hanno apportato nuove conoscenze, anche da un punto di vista epidemiologico. Per esempio, oggi sappiamo che la fibromialgia è maggiormente diffusa tra le donne (che rappresentano circa il 90% dei malati) e che può comparire a qualsiasi età, ma il picco si colloca tra i 40 e i 60 anni, con importanti ripercussioni sull’attività lavorativa e sul piano socio-affettivo. Si stima che in Italia ne soffrano quasi quattro milioni di persone: numeri che fanno della fibromialgia la seconda malattia reumatica, in termini di diffusione, dopo l’osteoartrosi (o artrosi).

Che cosa è la fibromialgia?

Il termine "fibromialgia" significa dolore (algos) proveniente dai muscoli (myo) e dai tessuti fibrosi (fibro), come tendini e legamenti. La fibromialgia è, quindi, una malattia reumatica che colpisce l'apparato muscolo-scheletrico, caratterizzato dalla presenza di: dolore cronico e diffuso, aumento della tensione muscolare e rigidità in numerose sedi dell'apparato locomotore.

Oltre allo stato di iperalgesia, molti pazienti presentano una serie di altri sintomi, che include: astenia (affaticamento cronico e stanchezza debilitante); disturbi dell'umore e del sonno (difficoltà ad addormentarsi o risvegli notturni per la tensione muscolare, che portano a sentirsi affaticati la mattina dopo); sindrome del colon irritabile.

La fibromialgia può essere definita "sindrome fibromialgica", in quanto particolari segni clinici possono presentarsi contemporaneamente. La coesistenza di questo insieme di disturbi concorre a determinare la diagnosi più probabile, anche se non tutti i pazienti avvertono l'intero insieme di sintomi associati alla fibromialgia.

Altre condizioni cliniche spesso presenti nel paziente affetto da fibromialgia sono mal di testa, difficoltà cognitive (soprattutto di memoria e concentrazione) e formicolii. Non solo: il 30-40 per cento dei pazienti con fibromialgia soffre di un concomitante disturbo psicologico significativo come ansia, panico, depressione, disturbo post-traumatico da stress, che può determinare un peggioramento dei sintomi della malattia.

Cos'è e quali sono le cause?

Le cause all’origine di tale malattia risultano ancora oggi in parte sconosciute. Seppure vi sono stati progressi significativi negli ultimi anni, infatti, la fibromialgia risulta ancora oggi una patologia difficile da diagnosticare e ancor più da curare in modo efficace e completo.

Nel caso della fibromialgia si pensa che la genesi sia multifattoriale (genetica, ambientale, emotiva) e che alla base della malattia vi sia un processo di "sensibilizzazione centrale". Secondo questa ipotesi, l'abbassamento della soglia del dolore, una delle caratteristiche principali della malattia oltre all'iperalgesia, è dovuta ad una aumentata reattivitá delle cellule cerebrali e spinali deputate alla percezione del dolore. Mediante questo processo di sensibilizzazione anche uno stimolo di lieve entità viene avvertito come un dolore.

Oltre alla componente genetica, i fattori che predispongono alla malattia sono riferibili ad infiammazioni, infezioni, traumi fisici, disturbi del sonno. Questi ultimi se da un lato sono un sintomo stesso della malattia, dall'altro aumentano il senso di stanchezza cronica. La fibromialgia può avere nella vita di tutti i giorni un forte impatto emotivo con sentimenti di preoccupazione, tristezza profonda, isolamento, rabbia e disperazione, oltre a compromettere in maniera significativa lo svolgimento delle attività quotidiane.

Perché è così difficile da diagnosticare?

I sintomi della fibromialgia sono diversi e c’è una frequente sovrapposizione con i sintomi di altre patologie. Gli esami di laboratorio o radiologici esistenti non sembrano aiutare nella diagnosi, risultando in grande parte aspecifici o non dirimenti. Anche per questo, nel corso del tempo la comunità scientifica si è interrogata sull’effettiva esistenza della fibromialgia e sulla sua classificazione. Solo nel 1992 la fibromialgia è stata riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come entità diagnostica autonoma. La diagnosi viene effettuata di solito da un medico esperto nella fibromialgia (solitamente un reumatologo, immunologo, ortopedico o psichiatra) attraverso un’attenta anamnesi (esistono questionari specificatamente sviluppati) e un esame obiettivo scrupoloso, che include la pressione dei cosiddetti tender points, punti specifici del corpo che, se premuti, provocano dolore in chi è affetto da fibromialgia.

Ancora oggi, pregiudizi e disinformazione da parte dei medici possono impedire l’accesso rapido alla corretta visita specialistica e, di conseguenza, alla diagnosi e a trattamenti tempestivi e mirati. Di solito infatti, prima di ricevere la diagnosi corretta, una persona con fibromialgia consulta numerosi specialisti, molti dei quali esprimono pareri diversi o contrastanti, anche magari prescrivendo terapie inefficaci. Tutto ciò ha un effetto deleterio sul paziente, perché contribuisce a generare confusione, rabbia, solitudine e depressione, che a loro volta favoriscono l’instaurarsi di una condizione di stress cronico, che contribuisce a peggiorare i sintomi algici e la percezione del dolore stesso.

Che ruolo giocano i fattori psicologici?

Gli aspetti emotivi nella fibromialgia assumono una rilevanza notevole non solo dal punto di vista degli stati psicologici ma soprattutto per la sovrapposizione di questi con gli stessi meccanismi biologici della malattia.

In alcuni individui vulnerabili geneticamente, infatti, condizioni di stress o sofferenza emotiva protratta a lungo e condizioni di dolore cronico si intrecciano e si influenzano reciprocamente generando un'alterata risposta dell'organismo a stimoli minacciosi, stressogeni o dolorosi.

Un esempio di come le emozioni si manifestino direttamente nel corpo è dato dallo stress. Ricerche dimostrano che le persone con fibromialgia hanno una tendenza maggiore rispetto agli altri di vivere in modo amplificato situazioni di stress psico-fisico, facendo fronte ad esse con un'iperattivazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, principale effettore della risposta individuale di stress. Ciò porterebbe a un'alterata produzione di cortisolo (comunemente chiamato "ormone dello stress") che a sua volta determina un aumento nel rilascio di citochine pro- infiammatorie. Queste ultime entrano in gioco sia nel potenziare i meccanismi depressogeni, sia quelli relativi alla percezione del dolore.

Allo stesso modo alcuni neurotrasmettitori, come la serotonina, agiscono non solo a livello cerebrale modulando ansia e depressione ma intervengono anche nel funzionamento di regolazione dei sistemi discendenti del dolore. L'emozione quindi genera dolore (e viceversa) in maniera diretta, immediata e il processo di sensibilizzazione centrale in alcune porzioni neuronali può essere alla base di entrambi gli aspetti della sindrome fibromialgica, quello somatico e quello emotivo.

Cosa fare?

È importante affidarsi a uno specialista che fornisca una diagnosi. Il reumatologo è il medico più adatto a capire se si tratta realmente di fibromialgia e che può dare le informazioni utili per le cure disponibili.

Il trattamento della fibromialgia prevede sia l'assunzione di farmaci, sia cambiamenti dello stile di vita, ed è sempre mirato alla riduzione dei sintomi e al miglioramento dello stato di salute generale. Purtroppo non esiste una cura definitiva e attualmente si consiglia l'approccio multifattoriale per ottenere i migliori risultati.

La psicoterapia si pone non come alternativa alle cure mediche ma come sostegno delle stesse. Al fine di non rendere vani i risultati raggiunti dal trattamento medico è spesso necessario individuare e risolvere le difficoltà emotive vissute dalla persona che spesso si manifestano attraverso il corpo.

La psicoterapia deve essere mirata a gestire gli stati ansiosi, a ridurre i fattori di stress e a raggiungere una maggiore consapevolezza di quali sono gli aspetti emotivi che possono mantenere o aggravare le condizioni della malattia.

Lo psicologo, in questi casi, collabora con il medico curante agendo parallelamente alle terapie mediche e fornendo anche un supporto emotivo nei momenti di difficoltà e scoraggiamento. Inoltre può fornire un parere e intervenire sull’eventuale presenza di disturbi psicologici che possono influire sulla percezione del dolore o sulla tendenza a sviluppare sintomi fisici in relazione a difficoltà emotive.

Come le esperienze infantili negative impattano la nostra esistenza

Non si tratta soltanto dei casi di abuso fisico, psicologico e sessuale, che riempiono tristemente le cronache. Sono numerose le esperienze infantili negative (a partire da quelle in famiglia) che possono avere risvolti in età adulta

di Federica De Nunzio, Psicologa Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR
e Giuseppe Massaro, Psicologo Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR

“Penso che quest’uomo stia soffrendo a causa dei suoi ricordi”  Sigmund Freud, 1895

La parola trauma deriva dal greco e vuol dire ferita. In questa prospettiva, possiamo quindi pensare al trauma non soltanto in riferimento a situazioni estreme, ma anche in riferimento a qualsiasi evento che abbia un effetto negativo perturbante sul sé o sulla psiche di un individuo.

Quindi, ad esempio, anche se un’umiliazione subìta alle scuole medie potrebbe non essere considerata come “trauma” per la diagnosi di Disturbo post traumatico da stress (PTSD), a livello emotivo tale evento può essere considerato l’equivalente evoluzionistico di venir tagliato fuori dal gruppo di appartenenza, e come tale può essere devastante e lasciare effetti traumatici duraturi.

Nel corso degli ultimi anni, numerosi studi hanno dimostrato come gli eventi di vita avversi, soprattutto in infanzia, possono portare allo stesso numero, o a un numero maggiore, di sintomi relativi al Disturbo post-traumatico da stress rispetto a quanto fanno gli eventi traumatici di grande portata, causando disagi e difficoltà in numerosi ambiti della vita.

Da uno studio effettuato su più di 17.000 pazienti (Felitti el al., 1998) è emerso che maggiore era il numero di esperienze infantili avverse, maggiore era la probabilità di sviluppare problemi relativi alla salute mentale, come alcolismo, abuso di droghe, depressione, così come problemi di salute organici (per esempio disturbi al cuore, al fegato e ai polmoni, tumori e fratture ossee).

La ricerca ha continuato a fornire prove a sostegno degli effetti negativi delle esperienze infantili avverse, mostrando per esempio che, al di là dell’aver subito veri e propri abusi o dell’aver assistito a violenza domestica:

Le ricerche dimostrano come gli effetti di tali esperienze avverse infantili possano essere profondi e duraturi; la causa di tali effetti risiede nella mancata elaborazione dei ricordi relativi a tali eventi, che dunque restano immagazzinati insieme agli elementi cognitivi, emotivi e somatici così come sono stati esperiti originariamente dall’individuo.

Ma cosa si intende per esperienze infantili avverse?

Con tale terminologia si intende qualsiasi delle seguenti esperienze vissute all’interno del contesto famigliare prima dei 18 anni:

Le esperienze sfavorevoli infantili sono associate al 44% delle psicopatologie durante lo sviluppo e al 30% negli adulti e sono le cause più frequenti di disturbi psicologici a tutte le età (Archives of Psychiatry, 2010).

Le ripercussioni, come abbiamo visto non sono soltanto sul piano psicologico. I bambini che vivono esperienze traumatiche del genere, infatti, sono più soggetti allo sviluppo di patologie croniche come il diabete, la pressione alta, o anche a ictus e infarti (Proceedings of the National Academy of Sciences, 2013).

Ma purtroppo non è tutto. L’esposizione ad eventi stressanti in età precoce rende il cervello meno resistente agli effetti degli eventi stressanti successivi, nel corso della vita. Questo fenomeno ha delle precise basi fisiologiche. Un bambino ha meno risorse di un adulto per fare fronte alle esperienze stressanti. Pertanto queste, specialmente se legate al contesto familiare o dei pari, non sono gestibili da parte del bambino e diventano croniche. Se lo stress è cronico, esso produce livelli tossici di neurotrasmettitori che uccidono le cellule del cervello, in modo particolare nell’ippocampo, area deputata all’apprendimento, alla memoria e alle emozioni. Nel cervello dei giovani adulti maltrattati o trascurati durante l’infanzia è possibile osservare cambiamenti strutturali specifici in regioni chiave sia interne sia vicine all’ippocampo. Alti livelli di ormone dello stress associati a diversi tipi di maltrattamento possono danneggiare quindi l’ippocampo che, a sua volta, può influenzare l’abilità delle persone di affrontare gli eventi stressanti nel corso della vita. Essendo danneggiate le sedi cerebrali deputate alla memoria e all’apprendimento, risulterà ancor più difficile apprendere a gestire le situazioni stressanti (presenti e future) e le emozioni ad esse connesse. Questi cambiamenti possono rendere i soggetti molto più vulnerabili all’insorgenza di depressione, ansia, PTSD e dipendenze.

L’abuso influisce anche sul sistema neuroendocrino, alterando la produzione dell’ormone regolatore dello stress cortisolo e neurotrasmettitori come adrenalina, dopamina, serotonina, che influiscono sull’umore e sul comportamento. Questi effetti riducono a lungo andare anche la funzionalità del sistema immunitario determinando gli affetti sulla salute fisica sopra menzionati.

La buona notizia è che un attento e serio lavoro sulla propria storia di esperienze infantili avverse, per mezzo della psicoterapia può avere effetti significativi nella “guarigione” dalle conseguenze negative di tale storia personale.

Purtroppo, per alcuni, l’esposizione a certe forme di maltrattamento o trascuratezza in infanzia è stata talmente continua e frequente, che tali esperienze vengono semplicemente reputate il modo “normale” di vivere l’infanzia: tali persone non sono pienamente consapevoli delle ferite subite. Gli effetti però si rendono spesso evidenti attraverso tutta una serie di sintomi e disagi psico-fisici sperimentati in diversi ambiti della vita (dai problemi relazionali, a quelli lavorativi, alle dipendenze relazionali e da sostanze, a problemi di ansia e di umore, alla difficoltà di gestire le emozioni, oltre a certe problematiche fisiche come quelle citate). Pertanto, quando si riscontrano difficoltà del genere, sarebbe opportuno rivolgersi a un professionista per valutare la presenza di esperienze traumatiche nel proprio passato. Fortunatamente oggi tecniche psicoterapeutiche avanzate, come l’EMDR (vedi articolo), permettono di rielaborare in modo funzionale le esperienze negative del presente e del passato e superarne gli effetti sulla salute psicofisica.

Riconoscere la violenza ostetrica

di Federica De Nunzio, psicologa-psicoterapeuta, terapeuta EMDR.

Definita per la prima volta in ambito giuridico nel 2007 nella “Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia” del Venezuela come “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano”, la violenza ostetrica è entrata progressivamente nell’agenda politica internazionale.

E mentre si inquadra il problema a livello mondiale e si cercano forme di tutela sempre maggiori, in Italia non esiste ancora una legislazione in materia e neanche una raccolta dati ufficiale. Durante la Sessione Autunnale 2019 il Consiglio d’Europa ha adottato la Risoluzione 2306/2019 chiedendo agli Stati membri di assicurarsi che l’assistenza alla nascita venga fornita nel rispetto dei diritti e della dignità umana e qualificando la violenza ostetrica nel quadro normativo della Convenzione di Istanbul – di cui anche l’Italia è firmataria. Ma è con il Rapporto annuale presentato lo scorso ottobre all’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite da Dubravka Šimonović, relatrice speciale sulla violenza contro le donne del Consiglio per i diritti umani, che la violenza ostetrica è stata riconosciuta come violazione dei diritti umani e vera e propria violenza di genere.

Cosa è la violenza ostetrica?

La violenza ostetrica si riferisce all’abuso che avviene nell’ambito generale delle cure ostetrico-ginecologiche ad opera di tutti gli operatori sanitari che prestano assistenza alla donna e al neonato (ginecologo, ostetrica o altre figure professionali di supporto).

L’OMS spiega che un numero crescente di studi sulle esperienze delle donne durante la gravidanza, e in particolare durante il parto, dà un quadro allarmante. Si parla di abuso fisico diretto, abuso verbale, procedure mediche coercitive o non acconsentite (inclusa la sterilizzazione), mancanza di riservatezza, carenza di un consenso realmente informato, rifiuto di offrire un’adeguata terapia per il dolore, gravi violazioni della privacy, rifiuto di ricezione nelle strutture ospedaliere, trascuratezza nell’assistenza al parto con complicazioni altrimenti evitabili che mettono in pericolo la vita della donna, detenzione delle donne e dei loro bambini nelle strutture dopo la nascita connessa all’impossibilità di pagare. Inoltre, adolescenti, donne non sposate, donne in condizioni sociali o economiche sfavorevoli, donne appartenenti a minoranze etniche, o donne migranti e donne affette da HIV sono particolarmente esposte al rischio di subire trattamenti irrispettosi e abusi.

Questi trattamenti non solo violano «il diritto delle donne ad un’assistenza sanitaria rispettosa», ma possono anche «minacciare il loro diritto alla vita, alla salute, all’integrità fisica e alla libertà da ogni forma di discriminazione».

Disturbo post-traumatico da stress (PTSD) Postnatale, di cosa si tratta?

Esperienze di questo tipo arrivano a configurare un vero e proprio disturbo post-traumatico da stress (PTSD) Postnatale, il quale si presenta attraverso pensieri intrusivi, incubi e flashback, disturbi del sonno, di concentrazione e memoria, ipervigilanza, irritabilità ed evitamento di tutto quanto correlato all’evento traumatico. Tale sintomatologia può insorgere da pochi giorni a diversi mesi dopo il parto, ed è stata inizialmente associata solo all’esperienza del parto. Il PTSD Postnatale è un disturbo associato a fattori di vulnerabilità individuali e a esperienze di rischio post-traumatico, incluse: gravidanze a rischio, travagli prolungati, complicazioni durante il parto, gravi condizioni di salute dei bambini alla nascita, perdite perinatali.

Il PTSD Postnatale compromette in maniera rilevante la qualità degli scambi affettivi madre-bambino; l’individuazione precoce dei fattori di vulnerabilità individuale e dei sintomi post-traumatici potrebbe contenere la sofferenza psichica delle donne, sostenere la qualità della relazione madre-bambino nonché tutelare il benessere di tutta la famiglia.

Cosa è stato fatto in Italia?

In Italia nel 1972 alcuni collettivi femministi di Ferrara promossero la campagna “Basta tacere” a cui parteciparono decine di donne che raccontarono le loro storie di abusi e maltrattamenti durante il parto o la gravidanza. Alcuni di quei racconti finirono in un opuscolo che venne stampato e ristampato a mano dalle promotrici in migliaia di copie. Nell’aprile del 2016 quella campagna è stata rilanciata per iniziativa di alcune attiviste e con il sostegno di decine di associazioni. La campagna, su Facebook, è stata chiamata come quella degli anni Settanta: “Basta tacere” e in pochi giorni ha raccolto spontaneamente le testimonianze di migliaia di donne che hanno raccontato e descritto le loro esperienze di abusi e maltrattamenti. Da questa recente campagna è nato infine l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica (OVOItalia) con la finalità di raccogliere dati e storie e di rendere visibile un fenomeno poco conosciuto e riconosciuto dalle donne stesse. Su commissione dell’Osservatorio è stata condotta l’indagine nazionale Doxa “Le donne e il parto” che ha permesso di ottenere dei dati significativi.

I dati dell’Osservatorio, l’episiotomia…

L’indagine per l’Osservatorio è stata condotta su un campione rappresentativo di circa 5 milioni di donne italiane di età compresa tra i 18 e i 54 anni con almeno un figlio di meno di 14 anni. I dati dicono che per 4 donne su 10 (41 per cento) l’assistenza al parto è stata lesiva della loro dignità e integrità psicofisica.

In particolare la prima esperienza negativa vissuta durante la fase del parto è risultata la pratica dell’episiotomia, subita da oltre la metà (54 per cento) delle donne intervistate. L’episiotomia è un’incisione chirurgica del perineo, l’area compresa tra la vagina e l’ano, praticata durante il parto per allargare l’apertura vaginale quando la testa del bambino comincia ad affacciarsi verso l’esterno. L’OMS la definisce una pratica «dannosa, tranne in rari casi». In Italia 3 partorienti su 10 negli ultimi 14 anni (cioè 1,6 milioni di donne e il 61 per cento di quelle che hanno subito un’episiotomia) hanno dichiarato di non aver dato il loro consenso informato per autorizzare l’intervento. Il rischio di un’episiotomia sono dolori post partum, la difficoltà che può durare anche settimane prima di riuscire a sedersi e a camminare normalmente e, infine, problemi e dolore nei rapporti sessuali dopo il parto.

La pratica delle episiotomie in Europa è molto varia da paese a paese: 70 per cento in Polonia, Portogallo e Cipro, 40-50 per cento in Belgio e Spagna, tra il 16 per cento e il 36 per cento in Francia, Germania e Svizzera, 13 per cento nel Regno Unito, 5-7 per cento in Danimarca, Svezia e Islanda. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia l’episiotomia viene praticata nel 60 per cento dei parti naturali, con medie che al sud arrivano anche al 70 per cento. Molto lontane da paese a paese sono poi le cifre che hanno a che fare con il ricorso ai cesarei. Secondo i dati del ministero della Salute, nel 2015 in Italia il 34,1 per cento dei bambini è nato con parto cesareo, mentre tra i paesi europei il tasso medio è inferiore al 25 per cento. Come dimostrano le percentuali registrate negli altri paesi europei, quella dell’incisione e del cesareo sono dunque in alcuni casi delle necessità, ma altre volte delle scelte.

Cos’è Optibith?

Nel 2016 è stata presentata la ricerca Optibirth condotta in otto paesi dell’Europa, compresa l’Italia, da un gruppo di operatori, in gran parte ostetriche e poi ginecologi, epidemiologi e statistici con l’obiettivo di contrastare l’inarrestabile aumento dei tagli cesarei, anche attraverso l’aumento di parti naturali dopo il cesareo (VBAC). Il presupposto era di realizzare un modello basato sulla centralità della donna, sull’autonomia delle sue scelte in quanto un cesareo non necessario o una cattiva informazione sulle proprie possibilità di scelta rientrano nel concetto di violenza ostetrica. Così come non è un obbligo per la donna assumere durante il travaglio la posizione standard invece di quella che preferisce, in modo da assecondare il più possibile la fisiologia del parto. Aldilà del grande sforzo innovativo e delle notevoli resistenze che dovunque ha incontrato, lo studio Optibirth ha segnato una svolta nella promozione della normalità della nascita.

Link utili

Quotidiano sanità 27/01/2017: Fermare l'epidemia dei cesarei

Organizzazione Mondiale della Sanità sulla violenza ostetrica

https://ovoitalia.wordpress.com/

I giovani nella pandemia

di Giuseppe Massaro, Psicologo-Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR

Tenuti a casa a giorni alterni, sperimentatori di una DAD per cui non eravamo pronti tecnologicamente e neppure culturalmente e pedagogicamente, ma anche accusati di tenere condotte meno rispettose delle regole anti-contagio, i giovani sono probabilmente una delle categorie più colpite dalle misure adottate e dai conseguenti cambiamenti di vita.

Di fronte ad una situazione nazionale che non ha eguali nella storia recente, è ormai evidente che l'emergenza sanitaria sia diventata sempre di più anche un'emergenza psicologica. La paura del contagio, l'incertezza sul futuro, la sospensione delle attività didattiche e ricreative, il distanziamento sociale, hanno instillato un crescente senso di disagio e insicurezza nella popolazione giovanile.

isolamento

Se i capannelli di ragazzi agli angoli delle strade, le risse, i cumuli di bottiglie lasciate nei parchi già nelle ore pomeridiane, sono stati presi come spunto per polemiche su presunti comportamenti irresponsabili dei giovani, tali fenomeni andrebbero più onestamente visti come sintomi di un disagio le cui radici affondano in condizioni ben più antiche e profonde della pandemia (e delle misure di distanziamento), la cui responsabilità è probabilmente quella di aver inasprito una fragilità sociale latente, sbattendoci impietosamente in faccia gli aspetti che meno avremmo gradito vedere.

Un quadro complesso, con pochi dati, ma significativi

Sono aumentati a dismisura i casi di tentati suicidi o di autolesionismo fa notare il direttore dell’Ospedale Pediatrico Meyer, Zanobini. Parallelamente sono aumentati di moltissimo i disagi psicologici: un boom di ragazzi che hanno bisogno di psicoterapia, secondo quanto riferito da associazioni di psicologi. L'impatto socio-sanitario sui giovani, causato dallo stress legato alla pandemia e dalle forti restrizioni che hanno subito sembra dunque essere molto pesante, e forse non se ne parla abbastanza.

La Asl di Teramo ha fatto osservare che "Dall'inizio dell'emergenza sanitaria l'unità di Neuropsichiatria Infantile ha osservato un aumento di circa il 15% delle richieste di aiuto da parte delle famiglie di bambini e adolescenti in stato di difficoltà. In particolare, si è registrato un incremento di diverse forme di disagio: impulsività, iperattività, oppositività, alterazione del ritmo sonno veglia, irritabilità, problemi nelle acquisizioni di lettura-scrittura e calcolo nei bambini; disturbi del tono dell'umore, disturbi ossessivo compulsivi, ritiro sociale, ideazioni suicidarie e disturbi dell'alimentazione negli adolescenti. L'ansia sembra aver inoltre rappresentato la risposta emotiva prevalente in tutte le fasce di età.”

Secondo la Asl abruzzese le motivazioni principali del crescente disagio vanno soprattutto ricercate nella riduzione dei contatti personali con i compagni di classe, gli amici, gli insegnanti, alla mancanza di spazi esclusivi in casa, all'utilizzo eccessivo della rete e alle difficoltà socio-economiche delle famiglie.

In effetti in Italiacirca 9 milioni di bambini e adolescenti sono stati esposti allo scenario emergenziale subendo cambiamenti sostanziali negli ambienti di vita, nelle routine quotidiane e nelle reti relazionali; aspetti che normalmente rappresentano delle risorse e favoriscono la promozione della salute e la resilienza agli eventi traumatici. Di questi circa 7,6 milioni hanno sospeso la frequenza delle lezioni in presenza e le attività educative, sportive, culturali e aggregative di comunità” (Rapporto Covid-19 n.43/2020).

L’adolescenza è già di per sé un periodo particolarmente delicato per il rischio di suicidio e di atti autolesionistici. Ciò è dovuto alla complessità dei compiti evolutivi che i giovani devono compiere in questa fase, mentre l’Io è particolarmente fragile proprio per i cambiamenti a livello di identità che vengono vissuti. Non a caso i giovani investono molto sul corpo, mentre le aree cerebrali più sollecitate sono quelle legate alle emozioni e all’impulsività. Cosa che può portare facilmente a comportamenti poco ponderati, soprattutto nelle loro conseguenze a lungo termine.

Bisogna però essere molto cauti nell'affrontare questo tema. Precisa il Dott. Alfaro, pediatra degli Ospedali Riuniti Stabiesi: "Ad oggi disponiamo di pochi dati in letteratura su un aumento dei tassi di autolesionismo, tentato suicidio, ideazioni o pensieri suicidari nel contesto della crisi da Covid-19; i risultati degli studi sono piuttosto discordanti: mentre uno screening condotto in Texas sul rischio di suicidio in 12.827 giovani dagli 11 ai 21 anni giunti in pronto soccorso ha evidenziato un aumento nel 2020 rispetto agli stessi mesi del 2019, non è stato riscontrato un aumento significativo in ricerche condotte in Giappone, Queensland (Australia), Bangladesh. Un'indagine condotta in Francia sugli studenti universitari di 18-22anni ha dimostrato comunque una preoccupante prevalenza di pensieri suicidari nel periodo pandemico".

E, diversamente da quanto affermato dalla Asl di Teramo, il primario di Neuropsichiatria infantile dell’Asst di Mantova, dottor Giuseppe Capovilla afferma: "Non abbiamo rilevato alcun aumento di fenomeni di autolesionismo tra bambini e ragazzi in questo anno di pandemia. Sono da evitare allarmismi su questo fronte, come pure occorre adottare molta attenzione quando si affrontano temi delicati e complessi come questo, e prudenza quando si parla di suicidi in età giovanile o infantile come mi è capitato di leggere in questi mesi: il rischio è quello di favorire l’emulazione."

Ecco quindi che altre variabili, anche di carattere socio-culturale, entrano in gioco. E non va dimenticato che la famiglia può rappresentare un importante fattore di protezione, sia nel preparare il periodo dell’adolescenza in generale, che, in particolare, nel viverla durante la pandemia. I bambini poi guardano ai genitori, come loro punto di riferimento e come modello per apprendere a gestire le loro emozioni. Si tratta di un apprendimento fondamentale, che porteranno con loro per tutta la vita e che li aiuterà anche in adolescenza. Se il genitore sarà il primo ad essere disorientato, arrabbiato e spaventato, se non riuscirà ad attivare delle risorse mentali mature e stabili di fronte alla pandemia e alle sue conseguenze, difficilmente il figlio potrà apprendere qualcosa di diverso.

L’ineguaglianza della pandemia colpisce anche (o soprattutto) i giovani

Che la pandemia (e le misure di contenimento messe in atto), pur riguardando tutti noi, abbiano avuto effetti impari, colpendo in particolar modo le fasce più deboli e fragili, e i giovani tra queste, è ormai assodato.

Tra i giovani, hanno poi vissuto un disagio più accentuato quelli provenienti da ceti sociali già in difficoltà prima della pandemia o da situazioni problematiche.

"Purtroppo, e i numeri ormai lo confermano, l'impatto non è stato equamente distribuito: hanno risentito maggiormente delle restrizioni i contesti sociali più fragili, quelli dove le relazioni educative erano già fallite o erano sul punto di fallire, dove le famiglie non possono essere un riferimento perché gravemente problematiche” ha affermato il Prof. Bracalenti, dell'Istituto Psiconalitico per le Ricerche Sociali (Iprs).

"Per quanto riguarda la salute mentale dei ragazzi siamo di fronte a un'emergenza – dice Bracalenti – che assume risvolti particolarmente drammatici quando si tratta di minori in carico ai servizi sociali. Anche prima della pandemia il sistema era in grave affanno dal punto di vista del supporto psicologico, a causa di un oggettivo sovraccarico dei servizi. Peraltro, in generale i ragazzi più facilmente degli adulti si rivolgono alle strutture pubbliche, perché c'è una certa resistenza delle famiglie a rivolgersi a professionisti privati. La didattica a distanza può contribuire ad acuire il disagio, lo spaesamento, la solitudine. Per questo sarebbe forse più produttivo pensare seriamente a quali forme di sostegno rendere disponibili per i ragazzi piuttosto che insistere per la ripresa delle lezioni in presenza a tutti i costi, se non ci sono le necessarie condizioni di sicurezza."

La DAD, amore e/o odio

In effetti, nelle situazioni più difficili, il ricorso alla DAD, e le complessità nell’attuarla, possono rappresentare uno stimolo negativo che porta all’abbandono o al disinteresse verso i percorsi formativi, dando vita a fenomeni di progressiva marginalizzazione poi difficili da recuperare.

È innegabile che, come Paese, non fossimo pronti a un passaggio così repentino a tali strumenti e modalità pedagogiche, e ciò sia da un punto di vista tecnologico che culturale. Ma le conseguenze della DAD, o meglio di una DAD attuata in fretta, possono essere più ampie e pervasive oltre alla dispersione scolastica (il cui rischio secondo il Censis ammonterebbe a oltre il 10%).

Maria Cristina Gori, neurologa e psicoterapeuta, afferma: "Le conseguenze psicologiche della DAD sono note solo in parte, ma sappiamo già che in alcuni casi possono compromettere l'apprendimento degli studenti. Pensiamo ai bambini con disturbi specifici dell'apprendimento, con disturbi visuospaziali o disfunzioni esecutive".

Ma, come accennavamo, il vero problema non sarebbe la DAD di per sé, quanto la disponibilità dei mezzi necessari e le modalità con cui viene attuata. Secondo l'esperta l'errore maggiore che si tende a fare con la DAD sta nella difficoltà ad adattarsi al nuovo strumento. "Le modalità classiche di apprendimento - spiega- non possono essere applicate alla DAD perché queste non permettono una sufficiente attenzione da parte degli studenti. I metodi più funzionali sono la 'classe capovolta', ribaltando il sistema tradizionale che prevede un tempo di spiegazione in aula da parte del docente, una fase di studio individuale da parte dell'alunno a casa e successivamente un momento di verifica e interrogazione nuovamente in classe. Può essere utile per gli insegnanti affidarsi alla narrazione di storie in modo da recuperare l'umanità; inserire il public speak come competenza da dimostrare online; sottolineare perché si spiegano certi argomenti oggi: non investire sul mezzo ma sulle caratteristiche personali", suggerisce Gori. Quindi maggior coinvolgimento emotivo, meno rigidità, più ricerca di umanità e di senso, sviluppo di competenze individuali “altre”.

Come alle famiglie, anche un po’ agli insegnanti si chiede però di trasmettere speranza per il futuro.

È importante che tutti impariamo a non identificarci totalmente con le nostre emozioni negative e con la paura. Si tratta di un insegnamento importante per noi e stessi e soprattutto per i ragazzi, perché determinerà come impareranno ad affrontare le difficoltà della vita. E si insegna molto di più con l’esempio che con le parole.

A noi adulti sta dunque la responsabilità di trasmettere il messaggio che il virus non è per sempre, che questo momento è una sfida, e di farci testimoni della forza e della gioia di vivere, nonostante tutto.

I ragazzi sono coloro che sul piano epidemiologico rischiano meno, ma, al netto delle polemiche sul loro rispetto delle regole, si sono sacrificati per i nonni e i genitori. E forse vanno anche un po’ ringraziati e sostenuti.

Conosciamo l'EMDR

di Giuseppe Massaro, Psicologo Psicoterapeuta; Terapeuta EMDR

Considerato uno dei trattamenti psicoterapeutici più richiesti dai pazienti e ritenuto tra i più efficaci dalle organizzazioni internazionali della salute, l’EMDR è il protagonista indiscusso degli ultimi decenni della psicoterapia internazionale.

Cosa è l'EMDR

L’EMDR (in inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un metodo psicoterapeutico strutturato che facilita il trattamento di diverse psicopatologie e problemi legati sia ad eventi traumatici, che a esperienze più comuni ma emotivamente stressanti.

L’EMDR si focalizza sul ricordo dell’esperienza stressante ed è una metodologia completa che utilizza i movimenti oculari, o altre forme di stimolazione alternata destra/sinistra, per trattare disturbi legati direttamente a esperienze traumatiche o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo.

Si tratta di un metodo interattivo e standardizzato, scientificamente comprovato da numerosissimi studi (randomizzati controllati) condotti su pazienti traumatizzati e documentato in centinaia di pubblicazioni. Negli ultimi anni ci sono stati più studi e ricerche scientifiche sull’EMDR che su qualsiasi altro metodo usato per il trattamento del trauma e dei ricordi traumatici. Le più recenti ricerche scientifiche hanno dimostrato l’efficacia dell’EMDR anche nel trattamento di altri disagi quali Depressione, Disturbi d’ansia (compresi gli Attacchi di Panico), Lutto acuto, Disturbi da stress lavoro-correlato, Problemi di dipendenze e abuso di sostanze, Malattie neurodegenerative, Disturbi connessi a patologie oncologiche e croniche (anche per i familiari dei pazienti).

Ciò dipende dal fatto che i tipi più vari di esperienze traumatiche rivestono un ruolo purtroppo molto significativo nello sviluppo di diversi disagi e patologie.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto nel 2013 l’EMDR come il trattamento d’elezione per le sindromi post-traumatiche e i disturbi specifici legati allo stress in bambini, adolescenti e adulti.

Come funziona l'EMDR

La mente di tutti noi è dotata un sistema fisiologico di elaborazione dell’informazione (AIP, Adaptive Information Processing) per affrontare i molteplici elementi delle nostre esperienze e immagazzinare i relativi ricordi in una forma sana, accessibile e funzionale. Secondo questo modello l’evento traumatico o stressante vissuto dalla persona viene immagazzinato in memoria insieme alle emozioni, percezioni, cognizioni e sensazioni fisiche disturbanti che hanno caratterizzato quel momento.  Ciò a causa dell’impatto emotivo sperimentato in quella circostanza. Tutte queste informazioni immagazzinate in modo disfunzionale, restano “congelate” all’interno delle reti neurali del cervello e non sono in grado di connettersi con le altre reti neurali contenenti informazioni utili. Le informazioni “congelate” e racchiuse nelle reti neurali, non potendo essere elaborate, continuano a provocare disagio nella persona, fino a portare all’insorgenza di patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici. Le tracce degli avvenimenti più dolorosi, infatti, non scompaiono facilmente dalla mente: molte persone dopo diversi anni continuano a soffrire per disagi e sintomi che pregiudicano il benessere e impediscono loro di sperimentare una vita sana e libera.

L’EMDR può contribuire ad alleviare i sintomi di molti disturbi clinici attraverso l’elaborazione dei ricordi disturbanti di esperienze di vita che possono aver contribuito allo sviluppo di tali disagi. Il cambiamento terapeutico che si riscontra dopo un trattamento con EMDR è il risultato dell’elaborazione di queste esperienze dolorose.

L’obiettivo dell’EMDR quindi è quello di ripristinare il naturale processo di elaborazione delle informazioni presenti in memoria portando ad una risoluzione dei disagi stimolando e facilitando la creazione di nuove connessioni più sane ed efficaci. Una volta avvenuto ciò, il paziente può vedere l’evento disturbante e se stesso da una nuova prospettiva. La peculiarità è che l’EMDR considera tutti gli aspetti di un’esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici.

Attraverso il trattamento con l’EMDR è dunque possibile alleviare la sofferenza emotiva, permettere la riformulazione delle credenze negative e ridurre l’attivazione fisiologica del paziente.

Questo approccio risulta efficace anche con i pazienti che hanno difficoltà nel verbalizzare l’evento disturbante che hanno vissuto. L’EMDR, infatti, non si basa su interventi esclusivamente verbali.

Questi aspetti sono stati messi in evidenza anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità:

“La terapia con EMDR si basa sull’assunto che I pensieri, le emozioni e i comportamenti negativi siano il risultato di memorie non elaborate. Il trattamento prevede delle procedure standardizzate che includono la focalizzazione simultanea su
(a) associazioni spontanee di immagini, pensieri emozioni e sensazioni corporee legate all’evento traumatico 
(b) la stimolazione bilaterale che avviene comunemente attraverso la forma di rapidi movimenti oculari. L’EMDR ha l’obiettivo di ridurre la sofferenza del soggetto e rafforzare le credenze adattive e funzionali relative all’evento traumatico.
L’EMDR non include
(a) una descrizione dettagliata dell’evento,
(b) il confronto diretto con le credenze del soggetto,
(c) un’esposizione prolungata o
(d) l’assegnazione di compiti.” (OMS, 2013)

I numerosi studi svolti nel campo dell’EMDR mostrano che attraverso l’utilizzo dell’EMDR si rincontrano benefici in tempi relativamente brevi (specialmente se confrontati con altri metodi terapeutici). Alcuni di questi studi mostrano che l’84%-90% delle vittime di trauma singolo non manifesta più il disturbo post-traumatico da stress dopo circa 6 sedute. In effetti, già dopo poche sedute di EMDR, i ricordi disturbanti legati a un evento traumatico o doloroso risultano desensibilizzati, perdono la loro carica emotiva negativa. Ciò indipendentemente dagli anni che sono trascorsi dall’evento. L’immagine cambia nei contenuti e nel modo in cui si presenta, i pensieri intrusivi e disturbanti in genere si alleviano o spariscono, e le emozioni e sensazioni fisiche di disagio si riducono di intensità.

Dato il riconoscimento universale come trattamento efficace, più di 180.000 terapeuti nel mondo utilizzano questo tipo di approccio nella loro pratica clinica. Milioni di persone in molti paesi del mondo sono state trattate con successo per più di 20 anni.

Il Centro OLOS mette a disposizione dei suoi utenti due psicoterapeuti abilitati all'utilizzo dell'EMDR in Psicoterapia, la Dott.ssa Federica De Nunzio e il Dott. Giuseppe Massaro.
Contattaci per avere maggiori informazioni.

Il comfort food: coccolarsi con il cibo del cuore

di Elettra Agovino, Biologa nutrizionista.

Con il termine Comfort Food si intende qualsiasi alimento, a cui ognuno di noi affida un sentimento, un valore consolatorio e/o nostalgico.

L’origine di questo concetto è molto vecchia, già Marcel Proust ne “Alla ricerca del tempo perduto”, agli inizi del 1900, fornisce una descrizione degli effetti nostalgici e consolatori che hanno alcuni alimenti.
Tuttavia il temine così come viene inteso oggi verrà coniato successivamente, negli anni ’70, diventando non più il cibo del ricordo, bensì quello del conforto e della sicurezza nel presente.

Il consumo di comfort food è spesso visto come un meccanismo di automedicazione, ma con effetto temporaneo, tuttavia ha come conseguenza quella di essere una delle principali cause di obesità, non solo per lo scarso valore nutrizionale del cibo, ma anche perché la sua introduzione non è controllata dai recettori della sazietà, quindi non risponde allo stimolo della fame.

Non saremo mai sazi, perché mangiare quel determinato alimento ci fa sentire bene, e non si può essere mai sazi del bene.

Questi cibi possono essere di vario genere ma comunemente sono ipercalorici, ricchi di grassi, sale o zucchero, come il gelato, il cioccolato o le patatine fritte, poiché questi sono in grado di attivare il sistema di ricompensa nel cervello umano, che dà un piacere gratificante o un senso temporaneo di elevazione emotiva e relax, in quanto capaci di indurre il rilascio di endorfine, dopamina e serotonina.
In particolari condizioni psicologiche, come stress, traumi o tristezza, le persone consumano il comfort food per concedersi un piacere occasionale o, quando provano emozioni negative, possono rifugiarsi in alimenti poco salutari per compensare temporaneamente il loro malessere.
Spesso si prediligono cibi che riportano a momenti dell’infanzia, momenti felici della nostra vita, oppure ancora si è spinti verso prodotti collegati a persone che sono state per noi importanti. Per questo motivo la scelta è fortemente individuale, alcuni prediligono il dolce, generalmente prodotti contenenti cioccolato, altri prediligono i carboidrati complessi quali pizza, pane e pasta, spesso si cercano cibi cremosi e morbidi che “accarezzano il palato”.

Ulteriori studi suggeriscono che il consumo di comfort food sarebbe innescato negli uomini da emozioni positive, mentre, al contrario, nelle donne sarebbe dovuto a emozioni negative. L'effetto dello stress risulta particolarmente evidente tra le ragazze di età universitaria: risulta infatti che solo il 33% di esse consuma cibi sani durante i periodi di particolare stress emotivo.

Sebbene non sembrino esistere delle correlazioni fra le caratteristiche dei singoli individui e i comfort food che ciascuno predilige, uno studio dichiara che, negli Stati Uniti, "i maschi preferiscono cibi caldi, sostanziosi, correlati ai pasti (bistecche, sformati e zuppe), mentre le femmine prediligono cibi consolatori più simili agli snack (cioccolato e gelato ad esempio). Inoltre, i più giovani optano perlopiù per i comfort food come gli spuntini a differenza delle persone che hanno più di 55 anni. lo stesso studio asserisce che il bisogno di mangiare dei comfort food avrebbe forti correlazioni con il senso di colpa

Il fenomeno del comfort food è nettamente aumentato nel corso del 2020 in seguito alla pandemia che ci ha colpito. In un periodo così difficile come quello che stiamo vivendo, in cui vengono meno i concetti di certezza e normalità, il cibo diventa un’ancora di salvezza. Durante il primo lockdown nel mese di marzo, in quasi tutta la penisola italiana si sono riscoperti i vecchi piaceri della tavola, della pizza e del pane fatti in casa, del cibo “così come lo faceva la nonna”. In questo modo è subentrato l’effetto placebo accennato prima, la riscoperta della cucina e dei vecchi sapori ha riportato alla mente i ricordi felici dell’infanzia, l’affetto e la serenità che i nonni hanno sempre portato nei momenti di tristezza, cercando, temporaneamente, di evadere dal mondo reale e di trasferirsi in un mondo più “comfort” in cui sentirsi al sicuro.