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Esiti psicologici di una pandemia

di Giuseppe Massaro, Psicologo-Psicoterapeuta.

Quello che davvero sappiamo è che sappiamo ancora poco. O quasi.

Lo scenario che stiamo vivendo non ha precedenti in tempi recenti. Negli ultimi cento anni è pur vero che si sono susseguiti una serie di eventi catastrofici su scala mondiale e locale: le due guerre mondiali, la pandemia “spagnola”, crisi politiche ed economiche, cataclismi in varie parti del mondo. Ognuno di questi eventi ha lasciato tracce nelle menti e nei corpi di chi li ha vissuti. Tracce non univoche, perché legate a una serie di variabili oggettive e soggettive. Le prime sono quelle proprie dello specifico evento e delle circostanze materiali in cui vivevano le persone che lo hanno dovuto affrontare; e già da questa prospettiva è facile vedere come la variabilità sia notevole: un terremoto di pari intensità non è lo stesso a Tokyo o in Yemen. Le seconde, quelle soggettive, sono ancor più esposte a variabilità, in quanto sono legate alla storia di ciascuno; una storia nella quale si possono trovare le risorse o gli ostacoli per affrontare un evento stressante.

Ho parlato volutamente di “evento stressante” perché un evento traumatico, prima di diventare traumatico è, appunto, altamente stressante. Alcune caratteristiche dell’evento e della persona che lo vive, appunto, possono renderlo più o meno traumatico.

Vediamo dunque di cercare di comprendere cosa possiamo ragionevolmente e seriamente dire riguardo i possibili esiti di un evento stressante così unico come quello che stiamo ancora vivendo.

Da un punto di vista scientifico rigoroso si può affermare solo ciò che può essere dimostrato, vale a dire solo ciò su cui si hanno prove prodotte scientificamente. Ad oggi però è stato possibile svolgere solo pochi studi sugli effetti psicologici di questa drammatica esperienza, e del lockdown; studi per lo più condotti a cavallo tra la prima e la seconda ondata. D’altronde, siamo ancora in piena emergenza, e al lockdown totale intanto si sono sostituite altre restrizioni, per certi versi più complesse.

Pertanto, avendo dati ancora parziali su una situazione in itinere, molto spesso ci si basa su studi già effettuati riguardanti le conseguenze di circostanze stressanti analoghe. Questo ci deve già far fare una considerazione: una parte di ciò che sentiamo dire, o che immaginiamo sulle conseguenze psicologiche di questa pandemia (e delle circostanze ad essa relative), sono ipotesi. Gli studi degli ultimi decenni sugli effetti dei traumi hanno messo evidenza degli aspetti, come le differenze tra gli effetti dei traumi individuali e di quelli collettivi e sociali, le conseguenze a lungo termine di eventi traumatici collettivi (alluvioni, tsunami, terremoti, guerre), le sottili connessioni psicofisiche delle esperienze altamente stressanti dimostrando come mente e corpo siano inscindibili per arrivare a dare prova persino del fatto che un trauma psicologico può alterare il DNA della vittima (altro che vaccini! Sono i traumi a poter modificare il nostro DNA!). L’ultima vera pandemia che ha impattato in modo simile il mondo intero è stata l’influenza “spagnola”, relativamente alla quale esiste tutta una serie di dati, resoconti e testimonianze, ma non studi condotti con i moderni metodi e con il rigore scientifico attuale.

Sappiamo dunque che in casi del genere tende ad aumentare l’ansia per la salute, che un numero consistente di persone può sviluppare sintomi fobici e di ipocondria, che si esasperano quindi i sintomi legati a disagi di natura ossessivo-compulsiva o fobica: la paura del contagio, dell’untore, dell’altro, dell’invisibile. Ciò porta facilmente a interpretare in modo più ansioso sintomi fisici e a tendere a negare quelli psichici (meno riconoscibili e controllabili), a essere diffidenti, a reagire difendendosi, aggredendo o fino ad arrivare al diniego assoluto del problema (che è pur sempre un modo per non essere sopraffatti da stimoli ansiogeni).

Sappiamo che, se nel breve termine si manifestano soprattutto sintomi legati all’ansia, nel lungo termine possono mostrarsi sintomi di natura dissociativa: magari si sa di aver vissuto un’esperienza stressante, ma l’aspetto emotivo di quell’esperienza è “da un’altra parte”, è stato scisso e isolato in quanto troppo disturbante (fonte di grande angoscia e vissuti di impotenza). Tali emozioni però non sono scomparse, sono “solo” altrove nella nostra psiche e da quell’altrove producono effetti, sintomi, disagi non appena qualcosa (uno stimolo, anche apparentemente innocuo), le sollecita.

Sappiamo che l’essere umano è in un certo senso “progettato” per affrontare le situazioni stressanti: le sue enormi capacità di adattamento gli hanno permesso di sopravvivere alle latitudini più estreme, ad affrontare pericoli e minacce, a ricostruire la vita dopo ogni catastrofe (anche quelle da lui stesso prodotte). E sappiamo che opporsi al cambiamento e non esprimere le nostre capacità di adattamento è nocivo, a lungo andare, per la nostra salute psicofisica. Persino il Buddha diceva che “non è il cambiamento ad essere doloroso ma il resistere ad esso”.

Sappiamo anche però che la nostra resilienza ha una durata e una forza soggettive, specifiche per ciascuno: chi ha già un fardello di esperienze traumatiche e stressanti alle spalle (soprattutto se appartenenti all’infanzia) ha una resilienza più fragile, è più soggetto ad essere “ri-traumatizzato”. In ogni caso, quando un’esperienza stressante si protrae a lungo, siamo tutti soggetti a una fase di “esaurimento” e in tale fase si manifestano sintomi di disagio a diversi livelli (psichici, fisici, comportamentali). A titolo di mero esempio, ne risentono la qualità del sonno, l’umore, le relazioni, l’attenzione e la produttività, ma anche il sistema immunitario.

Questo è qualcosa che sapevamo già prima della pandemia. La scienza comunque non è affatto stata ferma in questi mesi. I primi studi effettuati in alcuni casi confermano quanto previsto sulla base della letteratura esistente, in altri mostrano risultati singolari che meriteranno approfondimenti. Tutto è ancora in divenire.

Uno studio condotto in Cina durante il lockdown (e pubblicato lo scorso agosto) mette in evidenza proprio come in un primo momento non ci fossero effetti psicologici significativi, mentre già dopo due mesi era possibile rilevare diversi disagi (ansia, depressione, paura).

Un’altra ricerca svolta in Cina ha confermato come l’intensità dei disagi psicologici sia associata ai livelli di gravità dell’epidemia nella propria comunità, mettendo anche in evidenza come le persone cerchino di attuare una sorta di “distanziamento psicologico”. In questa prospettiva il lockdown, sebbene abbia probabilmente comportato una serie di effetti ancora da definire sul piano relazionale, ha senz’altro facilitato tale meccanismo di difesa del “distanziamento psicologico”: al sicuro nelle case, probabilmente molti individui si sono sentiti più protetti che se si fossero trovati costretti ad affrontare la pandemia in mezzo agli altri. Gli autori, tuttavia, poi affermano anche che il lockdown è una misura estrema che impatta la vita degli individui in modo drammatico, e che il ricorso a tale strumento dovrebbe essere circoscritto, poiché a lungo andare tale impatto potrebbe tradursi in altri tipi di disagi psichici, nonché che il meccanismo difensivo del “distanziamento psicologico” non può essere una modalità di adattamento valida a lungo termine.

Una ricerca in Nuova Zelanda ha evidenziato disagi psicologici per un terzo della popolazione, con i giovani, le persone con precedenti disagi psichiatrici e quelle con situazioni lavorative precarie a farne prevalentemente le spese. L’ansia (sociale e per il futuro) e la depressione sarebbero, ad oggi, gli effetti psichici più nocivi, con il 6% della popolazione che avrebbe pensato al suicidio e il 20% che avrebbe incrementato il consumo di alcolici. Tuttavia, più del 60% degli intervistati ha anche messo in evidenza anche aspetti positivi del lockdown, quali il sentirsi più protetti, il poter lavorare da casa senza perdere tempo negli spostamenti, il passare più tempo con i familiari, un ritrovato maggior contatto con la natura.

Uno studio condotto in Spagna su 2530 studenti universitari ha mostrato che circa il 50% di loro ha subito conseguenze psicologiche di media o acuta entità a seguito della pandemia. Il dato particolare in questo caso è che ad aver riportato i disagi maggiori sembrerebbero essere gli studenti di scienze umane e sociali rispetto a ingegneri e architetti. Anche il personale dell’Università sembra aver manifestato sintomi di minore intensità. Risultati analoghi sono emersi da uno studio simile in Malesia. Forse chi ha delle condizioni socio-economiche, o prospettive di vita e lavoro, più sicure e stabili è anche più “protetto” da un punto di vista psicologico.

Dati come questi ci fanno capire quanto sia complessa la realtà e quante variabili entrino in gioco nei fenomeni umani. Si tratta di aspetti che è necessario continuare a studiare e ad approfondire, senza dare mai nulla per scontato e senza fermarsi a discorsi e retoriche da salotto (anche televisivo). Cosa accadrà davvero nel lungo termine? Quali patologie psichiche e fisiche emergeranno?

Di certo stress prolungati facilitano l’instaurarsi anche di patologie organiche e possono complicare il decorso di quelle esistenti. Così come possono aggravare o far riemergere disturbi psichiatrici pregressi.

Ciò che possiamo, dunque, fare è prendere spunto da ciò che la ricerca è già riuscita a verificare relativamente a questa emergenza sanitaria e a circostanze simili, ipotizzando che alcuni di questi effetti potrebbero presentarsi anche in questo caso, consapevoli però che si tratta di ipotesi che necessitano di essere verificate, e che lo scenario è più complesso, ricco di variabili che possono intrecciarsi tra loro in modi non ancora verificati. I clinici, psicologi (e soprattutto psicotraumatologi), psichiatri, neurologi, ma anche medici e altri professionisti della salute, dovranno essere molto aperti mentalmente e attenti, nel cogliere segni e sintomi complessi bio-psico-sociali, anche a lunghissimo termine, che potrebbero essere riferiti all’esperienza stressante nella quale siamo ancora tutti immersi. Mai quanto ora, saranno necessari approcci multidisciplinari, che uniscano in un’unica visione l’individuo nella sua realtà fisica, mentale e sociale. Tenendo presente che, poiché questa pandemia riguarda tutti noi, gli stessi operatori della salute sono allo stesso tempo terapeuti e vittime.

Le persone dovranno, dal canto loro, cercare di mettere in campo tutte le loro risorse e capacità di adattamento, cercando di cogliere sempre l’opportunità dietro una crisi; e allo stesso tempo, senza negare la realtà che stiamo vivendo, dovranno cogliere in loro stessi e nelle persone care ogni segnale che possa rappresentare una manifestazione di disagio (psichico, fisico e comportamentale) e, mettendo da parte pregiudizi e resistenze, affrontarlo tempestivamente. Mai come in questo caso nessuno è immune, e cercare chiarimenti e supporto non significa essere deboli o “sbagliati”, bensì quantomai saggi e previdenti, in una situazione come questa, ancora attiva e destinata a lasciare tracce per lungo tempo.

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